Ma dopo la sentenza della Corte Suprema Usa che ha sostanzialmente confermato l’impianto della riforma sanitaria di Obama e dopo che la politica europea ha battuto un colpo, stanno cambiando i rapporti pubblico-privato, o quelli fra la politica e i mercati? Il mercato ebbro di guadagni, quello che fu così ben rappresentato nei “barbari alle porte”, ha spesso in questi anni fatto venire a mente un celebre passaggio del Faust. Dice il Cancelliere: «sia noto a chiunque lo desideri: questo biglietto val mille corone. Giace a sua garanzia, pegno sicuro, l’infinita ricchezza sepolta nell’impero». Replica l’Imperatore: «Sospetto un crimine, un mostruoso inganno!». Proprio quello che a noi mortali è apparso con terribile evidenza negli ultimi anni, per quanto i segnali già prima ci fossero tutti. Solo che, giusto o ingusto, quel sistema funzionava e così non vedere diventava utile.
All’apice del boom azionario nel 2000 nella City ci si passava di mano in mano libri come Funky Business considerato una bibbia del consumismo. In quei testi c’era chi preconizzava un mondo dove per votare, un giorno non troppo lontano, si sarebbero acquistati prodotti o, meglio ancora, azioni. Nell’euforia delirante di quella visione le elezioni sarebbero state relegate alla old economy, mentre nel mondo nuovo per dire la nostra sarebbero stato sufficienti le nostre scelte d’acquisto. Pochi anni prima di quella sbornia dove il mondo affogò i corsi e ricorsi della Storia, Giulio Andreotti sottolineò di non essere mai andato alla City a sottoporre i piani economici del governo al placet della comunità finanziaria, come invece era diventato prassi negli ultimi anni. «La politica ha sempre avuto bisogno di un imprimatur, prima lo dava il Papa, ora lo danno i mercati» disse orgoglioso in quegli anni Bob Parker, all’epoca gestore al Credit Suisse.
Ecco, senza enfatizzare, il vertice Ue della notte scorsa ha fatto un passo avanti nel dare l’idea che il rapporto fra politica e mercati stia cambiando a tutto vantaggio della prima. E il paradosso, per noi italiani, è questo accade con un tecnico al governo. Qualcosa, in questo senso, è già cambiato. Non solo come dimostra appunto la sentenza della Corte Suprema Usa sulla riforma sanitaria. Ma anche, come dimostra l’amministratore delegato di Morgan Stanley, James Gorman, pure i banchieri, almeno i più illuminati, lo sanno: «i leader europei si trovano davanti problemi così difficili e complessi che nessuno si può aspettare che vengano risolti in un “Lehman weekend”», ha detto pochi giorni fa aggiungendo: «lasciamoli lavorare alla loro velocità». Chiaro?
Se vogliamo i segni di questi cambiamenti c’erano già tutti, prima di queste ultime vicende. Non solo perché ora l’Occidente compete con dei capitalismi di Stato, quali spesso sono i modelli dei Paesi emergenti, e perché questa competizione obbliga a usare armi diverse. Ma un segnale lo si trova anche nel fatto che la stessa frase “il mercato dice”, utilizzata con tanta insistenza da chi scrive di economia e finanza, compresi noi qui a Linkiesta, ha cambiato significato. Una prima rivisitazione di questa interpretazione del ruolo dei mercati l’ha scritta l’Economist qualche settimana fa. Nella rubrica Buttonwood, si ragionava infatti delle implicazioni dovute al fatto che il costo del finanziamento per le banche europee sia già dal 2007 superiore a quello delle migliori aziende (quelle con l’investment grade). Come si vede nel grafico qui sotto:
Dopo aver ricordato come, ovviamente, il mercato obbligazionario non sia mai stato scevro dalle influenza delle banche centrali, sottolineava come adesso però siano le banche centrali, più che gli operatori privati, a fare il grosso del gioco. Ad esempio, la Bank of England, diceva, ora possiede un terzo del mercato dei Titoli di stato inglesi (gilt) e «l’effetto è che adesso i rendimenti non sono più fissati solamente dall’equilibrio fra l’offerta e la domanda del settore privato».
Discorsi simili, scriveva l’Economist, si possono fare anche per il mercato monetario e quello azionario. «Il risultato è che è difficile dire quale sia il messaggio che stanno inviando i mercati». Il mantra, lo sappiamo, è che è meglio intervenire pesantemente nel sistema finanziario piuttosto che non fare niente e rischiare la Grande Depressione. Ma «la storia suggerisce che una volta che i governi intervengono in un settore è difficile che poi tornino indietro». Andiamo quindi pure avanti a scrivere frasi (già di per sé spesso generiche o prive di senso) come «i mercati dicono» o «secondo gli operatori» ma rendiamoci conto che sia i mercati che gli operatori non sono più quello che erano durante l’era dell’oro. Il mercato, dove la liquidità alle banche arriva adesso in gran parte dalle banche centrali, è un po’ meno privato di quello che è stato fino adesso (la definizione usata da Buttonwood per «mercato» è «financial-political complex»).
Stiamo quindi andando verso una restaurazione del dominio della politica e con essa del pubblico? Difficile crederlo davvero, visto che anche le casse statali piangono misera. Piuttosto sembriamo andare verso un riequilibrio delle forze, o, meglio, delle debolezze. Con le banche che, dall’inizio della crisi hanno retto gli Stati comprando il loro debito pubblico mentre in cambio gli Stati hanno fornito agli istituti di credito il loro appoggio, è difficile pensare, almeno qui in Occidente, a nuove forme di supremazia. Ma il “senato virtuale” di Noam Chomsky, quello secondo cui le istituzioni finanziarie senza volto dettano il bello e il cattivo tempo a governi loro prigionieri, sembra, in questo contesto, essere arrivato a un redde rationem che però, per definzione, ha bisogno di identificare nomi e cognomi, responsabilità personali e culturali molto più gravi e importanti di qualche eventuale guaio giuridicamente rilevante. E in questo giorno del giudizio, dagli Usa all’Europa, può forse calare il sipario su quel «mostruoso inganno» che fa finito con togliere lo scettro alla politica. Nonostante tutto, e perfino nell’incertissimo scenario italiano, questa è buona notizia.