Storia Minima“Roma senza Papa”, e il cristianesimo ritrovò se stesso

“Roma senza Papa”, e il cristianesimo ritrovò se stesso

Nell’incontro con le famiglie a Milano, comunque lontano da Roma, forse Benedetto XVI ha cercato anche di trovare un senso e una direzione di marcia. Certamente ha cercato di uscire da un ambiente soffocante. E tuttavia si sbaglierebbe a pensare che tutto questo sia solo un improvviso guazzabuglio.

«Questa rassegna di moda ecclesiastica porge il suo saluto a Sua Eminenza e a tutti i Suoi illustrissimi ospiti». È l’attacco della sfilata di alta sartoria per ecclesiastici che Fellini colloca in una delle scene simbolicamente più riuscite di Roma, un film che gira nel 1972. Roma e la Chiesa ufficiale compaiono contemporaneamente in tutto la loro eleganza, ma anche nella loro vacuità.

Dietro a quella scena si intuisce la consistenza di una corte, governata da tutte le regole proprie dell’età barocca: un’estetica raffinata, per certi aspetti anche delicata, un sistema di potere obliquo, comunque profondamente diviso attraversato da molti conflitti interni, la consistenza, al di là delle forme, di costumi, stili di vita e atteggiamenti, rilassati,un centro del potere che non si sa esattamente dove stia. In mezzo il disorientamento, la sensazione contemporaneamente dell’ortodossia e del relativismo.

L’effetto è lo smarrimento condito in una salsa di retorica della certezza. Dentro, rotto il dogma, una sensazione di “navigazione a vista”. Non è detto che sia esattamente la scena che ci troviamo di fronte in queste settimane, ma ne presenta molti tratti. Soprattutto collocati in quel territorio di mezzo tra disincanto e nostalgia dell’assoluto.

È quello stesso terreno che Guido Morselli (1912-1973), descrive in Roma senza papa, un lungo racconto che esce postumo nel 1974 per Adelphi (ma tutta la sua opera esce postuma perché nessun editore ha mai voluto stampare un suo testo, lui in vita) e che è forse la descrizione più disincantata e sconsolata di una Chiesa che non sembra più avere un centro in una città che comunque appare informe, dove tutti sono “ex”.

Guido Morselli scrive Roma senza papa nella seconda metà degli anni ’60 collocando lo scenario che descrive alla fine del millennio. Una realtà che è caratterizzata dal senso di dissoluzione del sacro, dalla slabbratura dei costumi e della vita, dalla perdita di potere di una Chiesa che appare smarrita. La voce narrante del testo – quella di un prelato che descrive una realtà tra l’attonito e il disincantato – ha una tonalità sarcastica, di sarcasmo amaro, più che ironica, in particolare quando deve descrivere la figura e la giornata del Papa (che Morselli scrive rigorosamente a lettere minuscole. Anche questo un segno di un mondo ormai “piccolo”). Il Papa – Giovanni XXIV – vi compare come un manager che passa le sue giornate tra Zagarolo, dove ha fissato la sua residenza, e delle rare apparizioni in una città ormai senza un volto (forse, più precisamente, senza un’anima). E che nel tempo libero si rilassa. Un amministratore delegato di un’azienda che a malapena conosce.

Per come lo possiamo leggere oggi può forse apparire anche troppo pessimista se volgiamo lo sguardo indietro e ripensiamo a una figura di grande carisma come Giovanni Paolo II.
Ma anche lì ci sarebbe molto da riflettere.

Come aveva intuito un grande studioso del vissuto religioso contemporaneo, Alphonse Dupront (1905-1990), la forza carismatica di quella figura nascondeva un’incertezza profonda. Dietro l’autorevolezza e l’aura di sacro che la circondava si presentava una crisi radicale. Non diversamente è per Roma, una città simbolo, che proprio nell’anno del Giubileo vedrà innalzarsi tutti i conflitti: quelli simbolici (intorno alla possibilità o meno che avesse luogo il “World Gay Pride” alla risistemazione urbanistica in nome dell’evento, ma che trascura le periferie).

L’immagine è quella di una facciata impeccabile, ma di una malattia profonda, intima in cui la città del Papa non si redime. Così radicale da ricordare le dure parole di Pasolini in La religione del mio tempo, ovvero essere «La Chiesa, lo spietato cuore dello Stato». 

Un monaco, anche se non ignaro delle mondanità diplomatiche, rimane un monaco. Tale era Giovanni XXIV all’atto della sua elezione. […].
Ho qui nella cartella ‘Evidenza’, le bozze di una circolare che mi passa Mons. Vescovo. Si avverte il clero dipendente che è consigliabile non tenere elicotteri per uso personale, compresi i c.d. station-copter di impiego promiscuo. Evitare in ogni caso di servirsene in compagnia di donne, specie in età giovanile, comprese le religiose, ancorché indossino le vesti degli ordini.
Risulta dal relativo dossier della VI (sesta) circolare che diramiamo in due anni sull’argomento. Ciò basta a provare che queste reprimende sono inutili. […]
Giovanni dunque era monaco. Adesso che è papa e ha detto addio alle vie della contemplazione per intraprendere quelle, meno comode, dell’azione responsabile e direttiva, la domanda è se ha cambiato vita.
Concezione e intima condotta di vita. Un papa che venga al Soglio del governo di una grande arcidiocesi, cambia soltanto dimensioni di lavoro: Giovanni, oltre a cambiare carriera, ha assunto un nuovo e più strenuo ideale. […] Vediamo sino a che punto si concilia quel poco che sono giunto a sapere di Lui. Notizie di superficie raccolte in pochi giorni e per pochi canali; aneddotica ‘romana‘ più che altro.

Giovanni beve, benché moderatamente. Un paio di bicchieri di vino locale, dopo il pranzo e la cena. Mangia, di gusto suo, pochissima carne. Preferisce latte, formaggi, uova.
Gli piacciono i dolci e non se li fa mancare. Caflisch manda da Napoli le tortiere già pronte, da presentare alla mensa d Sua Santità. Gradisce, in tutte le stagioni, il gelato. Fuma sigarette Peter Stuyvesant, in dose appena normale, (e nel formato comune, non in quello maggiorato che il fabbricante non si perita di chiamare Pope’s size). Mangia da solo, tranne, come già Pio X e Giovanni XXIII, la domenica, quando convita amici, se possibile conterranei. Come tutti gli Irlandesi, il suo vino non lo beve a pasto ma dopo, camminando su e giù per la stanza, o seduto, d’inverno, al caminetto.
Si è dispensato da tutte le pratiche conventuali e monastiche, in quanto obbligo, non però in quanto saltuaria e spontanea frequenza: e non dalla veste, che trova confortevole più del clergyman, adottato dal suo diretto predecessore Libero I. Se fa caldo, lo si può vedere in sandali e perfino affatto scalzo, a piedi nudi.
Nella Residenza non ci sono piscine, nemmeno di quelle ‘micro-olimpioniche’, in plastica, come ne possiede ogni villino di periferia: pure Giovanni si mantiene agile, coltiva volentieri il gioco del tennis. Lo fa senza eccessi; corre voce che abbia giocato, e vinto, con Di Gennaro, l’ambasciatore statunitense. Buon cavalcatore (è un’antica tradizione dei Benedettini d’Irlanda) , si esercita nei giardini della Residenza; opportunamente, a non rievocare fantasmi di papi equestri, adopera le due mule giuntegli in dono dall’Isola dei Santi.
La famosa amicizia con Mrs. Oona Maraswami appartiene, se mai, alla vita pubblica. Gli incontri in verità spesseggiano. Però hanno luogo in biblioteca, presente l’uno o l’altro dei due prelati o camerieri partecipanti; oggi, per l’esattezza, Segretari-privati. Incontri, dunque, spogli d’intimità, anche se non rigorosamente protocollari. Circostanza notevole, che non è ancora stata data in pasto a lettori e telelettori: fra i subalterni della Residenza si contano diverse donne, non religiose e non vecchie, fra cui un’interprete di dialetti africani (negra), una cuoca emiliana, una tecnica inglese del teletyping. Il progresso o comunque il divario, rispetto a Suor Pasqualina, è chiaro e non occorre di più per assegnare il peso che meritano alle versioni ascetiche della personalità dell’Uomo, che si sono tentate da varie parti; leggermente e affrettatamente, a mio sommesso avviso.
Misura, spontaneo equilibrio. Niente di rigido, di mortificatorio, o di esteriormente austero. Certo, d’altra parte, nemmeno più l’ombra del fasto feudaleggiante della Corte che trent’anni fa io ebbi modo di ammirare. Diciamo pure, di venerare.
Non assiste a spettacoli cinematografici, non a concerti, non tiene presso di sé un solo apparecchio TV, neanche del vecchio sistema bidimensionale. Invece dicono che apprezzi, come un papa del Rinascimento, gli spettacoli molto ingenui e animati, di destrezza o fi forza, i giocolieri, i comici, i clown, i lottatori. Al ricevimento del segretario del PCUS, Wassilienko, il maggio scorso, pare che costui osservasse:
Suppongo che Vostra Santità conosca bene Marx.
Quale de due – avrebbe risposto Giovanni – Groucho Marx o Karl Marx?”

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club