Héctor Bianciotti
(18 marzo 1930 – 12 giugno 2012)
Di questo scrittore, nato piemontese-argentino e diventato francese con dedizione integrale, si sono dati sintetici ritratti: l’erede di Borges, il primo autore ispanico ad essere accolto fra “gli immortali” dell’Académie francaise, un uomo che colpiva subito per “la discipline de la forme” (cioè elegante, pieno di tatto, e di una semplicità “grand genre”). Lasciandolo parlare – qui con brevi citazioni – si capiscono più cose: come emanciparsi dall’isolamento in patria, come un’altra lingua, e la sua letteratura, possano diventare padre, madre, e riscatto dai genitori naturali, come il celebre sentimento nazionale argentino non sia sempre scontato. Nel caso di Héctor Bianciotti è andato in pezzi molto presto. Ritrovandosi con naturalezza abbracciato all’Europa.
Héctor non è mai stato in esilio, e l’ha detto: «Ho sempre saputo dov’era il mio Paese, la Francia, e l’ho raggiunto quando ho potuto. Non potevo andare da un’altra parte». Era partito da quattro strati di Argentina che coincidevano con una pila di condizioni che non gli piacevano, né gli assomigliavano: la provincia “pampera” di Cordoba, dov’era nato, la famiglia contadina e piemontese – sette figli – e i genitori con cui non «si intendeva» (sue educate parole), sei anni di seminario per imparare a leggere e a scrivere, la vita a Buenos Aires, città paurosa, intrisa di spirito “macho”, a lui totalmente estraneo.
A 25 anni, nel 1955, Héctor prendeva il largo, quasi in miseria: sarebbe arrivato prima in Italia e poi in Spagna. La distanza era stabilita per sempre: «L’Argentina è un Paese giovane, senza memoria. Per niente al mondo sarei potuto tornare da dove venivo. Mi sento bene in Francia, questo Paese antico e con la certezza delle sue radici». La sua lingua, da bambino, era il dialetto piemontese, sostituito poi, com’era ovvio, dallo spagnolo (con cui sono scritte metà delle sue opere, fino al 1983).
Quando, a 15 anni, scopriva Paul Valéry (attraverso sparsi supplementi letterari dei giornali), senza impigrirsi nelle traduzioni in spagnolo, comprava un dizionario bilingue, e imparava velocemente l’altra lingua: quando, nel 1961, sbarcava a Parigi, era già un francofono appassionato, pronto a utilizzare quella risorsa – si sarebbe perfezionato come critico letterario al Nouvel Observateur – con un bagaglio interno di lingue impilate (anche l’italiano), e una capacità di “babelizzarsi” tenendo ferma la sua preferenza. O la sua patria scelta: «Il francese è la più malata fra le lingue latine. Un insieme eterogeneo di celtico, latino, e germanico. Ma è anche la più intima. Il termine “solitude”, in francese, è intimo, mentre il corrispondente spagnolo “soledad” è, al contrario, estremamente aperto. Tutto il mondo dice, ogni tanto e senza prestarci attenzione, una frase molto francese: “Il fondo dell’aria è fresco”. È un’espressione di Mallarmé: immaginare che l’aria possa avere un fondo è concepibile solo a uno spirito francese. Ma non credo che esistano lingue più o meno belle. La differenza sta nella grandezza delle letterature: il francese è la lingua che ha, forse, la più grande letteratura del mondo».
Lo “scrittore del dubbio” – altra definizione post-mortem di Bianciotti – ha pubblicato una cinquantina di opere (fra racconti, romanzi, saggi, e testi autobiografici che sembrano romanzi) con titoli e sostanza fra i più belli: dalla raccolta “L’amore non è amato”, a “La ricerca del giardino”, a “Senza la misericordia di Cristo” (tutti Sellerio), a “Ciò che la notte racconta al giorno” (Feltrinelli), un fortissimo ritratto di come un giovane argentino decida di imbarcarsi per l’Europa perché niente del suo Paese di nascita lo riguarda: la pampa, i preti del seminario, la capitale forsennatamente virilista, e il mito nazionale, cioè il generale Peron.
Héctor Bianciotti che – dichiarandolo – aveva iniziato a sognare in francese nel 1983 (due anni dopo la concessione della cittadinanza), era altre cose: soprattutto un “parigino”, fin da ragazzo, e migrante. Anche a Milano, alla Scala, nel 1955, arrampicato in un loggione, ad ascoltare la Callas nella “Traviata” diretta da Giulini, e ricreata da Luchino Visconti: la Violetta Valéry più vera, che prima di morire sente annunciare che «Tutta Parigi è in festa, è Carnevale!». Hector è morto in un ospedale del XVI arrondissement parigino, devastato da un Alzheimer: nell’ultimo periodo ascoltava solo la Callas. In quella “Traviata”, prima di tutto.
Philip Tobias
(14 ottobre 1925 – 14 giugno 2012)
Paleoantropologo sudafricano, nato a Durban (provincia dello KwaZulu-Natal), è morto, a 86 anni, a Johannesburg, capitale della provincia di Gauteng. Considerato una “vetta mondiale” nella ricerca e negli studi sull’evoluzione umana.
Ha ritrovato i resti delle nostre origini – ominidi – nelle grotte di Sterkfontein, a nord-ovest di Johannesburg. Per cui, ab ovo, e anche grazie a lui, non possiamo non dirci africani. Le sue ricerche, sull’evoluzione, sono andate di passo parallelo all’emancipazione storica del suo Paese, il Sudafrica (dal regime segregazionista alla liberazione pacifica del 1993).
Durante un’intervista del 2006, ironizzava, con mezze frasi, ma non cattive, su chi aveva combattuto l’apartheid stando all’estero. Aggiungeva che la sua lotta, e le sue opinioni, avevano avuto un valore in quanto “interne”, nel corso dell’evoluzione politica sudafricana. Era dentro al suo lavoro, e a un metodo d’osservazione: ipotizzare un’evoluzione a tappe, andare alla ricerca delle prove, e, una volta fatta la scoperta, affermare l’esattezza scientifica di quel risultato. E la bontà di quel processo.
Due i passaggi fondamentali dovuti a Tobias, nell’ultima metà del secolo scorso. In quelle grotte di Sterkfontein, i lavori di ricerca scavavano abbastanza a caso, ma con la ragionevole ipotesi che lì, e non in un altro luogo della regione, si poteva trovare l’ “anello” di congiunzione ricercato. E così, un giorno, il gruppo di Tobias fece venire fuori “Little foot” (Piccolo piede): un magnifico e completo scheletro d’australopiteco, vissuto 4 milioni d’anni fa.
Nel 1964, la celebre rivista “Nature” annunciava un’altra identificazione: dei resti di “Homo habilis”, l’antenato dell’ “Homo sapiens sapiens”, cioè di tutti noi. I lavori di ricerca erano diretti da Tobias, insieme a Louis Leakey e John Napier. Inglesi tutti e due: il primo “paleontologo”, l’altro “primatologo” (cioè specifico studioso dei primati).
Tutti e tre potrebbero essere un bersaglio in effigie dei più accaniti “creazionisti”: quei ritrovamenti confermano, infatti, Charles Darwin, sotto almeno due aspetti collegati. Quello dell’evoluzione della specie, e il fatto che la nostra specie sia nata in Africa.
Il raggio di specialità di Tobias era poi impressionante: toccava la genetica, la fisiologia, l’anatomia dentaria. Era partito dalla medicina, e non aveva mai smesso di interessarsi alla storia e anche alla teologia. È stata anche ricordata la sua passione di “pedagogo”, e le qualità, umane e sapienti, che ci metteva. Qualche giornale ha anche scritto come l’ex regime sudafricano si fosse tenuto fuori, anche finanziariamente, dagli aiuti per quelle ricerche. Che, in fondo, andavano a dimostrare come i primati, e poi i “primi” di tutti (neri, bianchi, coloured, eccetera) fossero partiti invariabilmente africani.