A leggere il Financial Times, questa mattina, uno potrebbe pensare che il mondo è proprio alla rovescia: l’assemblea degli azionisti di Wpp, colosso pubblicitario da 10 miliardi di sterline creato da zero da Martin Sorrell, ha bocciato con circa il 60% dei voti contrari il di lui bonus, passato da 4,2 milioni di sterline nel 2010 a 6,8 milioni nel 2011, con un aumento del 30% per la parte fissa e un altro dal 300 al 500% di essa al raggiungimento degli obiettivi aziendali. Per la cronaca, Sorrell con 11,6 milioni di sterline nella City è secondo soltanto al capo di Barclays, Bob Diamond, che ne ha intascati 20,9. Il paradosso sta nel fatto che Wpp – che controlla tra gli altri Burston Marsteller, Ogilvy e Young & Rubicam – ha chiuso l’anno scorso con utili in aumento del 38% a 916 milioni di sterline, e un rendimento lordo delle azioni del 3,3 per cento. E non si tratta di un’eccezione: nell’ultimo decennio il rendimento è stato del 5,4%, mentre il Ftse 100, il listino delle società inglesi a più elevata capitalizzazione, ha guadagnato il 5,5 per cento.
Una prima assoluta: è come se, in Italia, l’assemblea di Luxottica votasse contro la remunerazione di Leonardo Del Vecchio. Il regolamento della Fsa, la Consob inglese, prevede che il voto contrario dell’assemblea non sia vincolante, ma l’indicazione dell’assise è troppo clamorosa per essere ignorata. Scottish Widow, uno dei grandi azionisti della compagnia, ha detto al quotidiano della Ciy di aver votato contro in disaccordo con «la decisione da parte di Wpp di cambiare gli accordi precedenti sui bonus ai manager esecutivi». Sempre a mezzo stampa, ancora sul Ft, Sorrell si era giustificato con motivazioni che non fanno una piega: «Nel 1985 ho chiesto un prestito di 250mila sterline per acquistare il 15% della Wpp. Oggi chiunque abbia investito mille sterline nel 1985 ne avrebbe oggi oltre 46mila, dividendi compresi, o 31mila, dividendi esclusi». E ancora: «ho continuato a investire […] oltre 40 milioni di sterline».
Conti 2011 di Wpp (Fonte: Bilancio 2011 Wpp)
Il precedente storico riguarda i compensi dei manager Shell, bocciati nel 2009 con il 60% dei voti contrari, ma di esempi, guardando alle banche, ce ne sono molti: Ubs, Citigroup, Barclays per citarne alcuni. Il gruppo assicurativo Aviva è un altro caso di scuola: l’8 maggio scorso l’amministratore delegato Andrew Moss è stato costretto alle dimissioni per essersi alzato lo stipendio 2011 a quota 1,2 milioni di sterline, mentre in borsa il titolo ha lasciato sul terreno il 30 per cento.
In Italia tutto questo è fantascienza. La recente riforma dell’articolo 123-ter del T.U.F, apportata un anno fa seguendo le indicazioni comunitarie, prevede al comma 6 che: «[…] l’assemblea convocata […] delibera in senso favorevole o contrario sulla sezione della relazione sulla remunerazione prevista dal comma 3. La deliberazione non è vincolante». Tradotto, significa che la paga di chi è deputato a creare valore per gli azionisti non è oggetto di consenso, ma rappresenta una “sfiducia” sulla policy adottata dai manager della società. Tanto che, qualora la maggioranza dell’assise non approvi i compensi, l’amministratore delegato e il presidente, assieme al comitato remunerazioni, devono riformulare la relazione sulle remunerazioni, e votarla in un’assemblea straordinaria convocata ad hoc.
Una situazione del genere si è verificata lo scorso 27 aprile in occasione dell’assise di Impregilo, quando grazie ai voti contrari di Salini e dei fondi d’investimento, che hanno aggregato il 51,5% del capitale, non è passata la relazione sulla remunerazione. Tuttavia, la mossa va interpretata non guardando tanto ai fondamentali della società quanto piuttosto alla lotta di potere che coinvolge i vecchi e i nuovi azionisti di maggioranza del general contractor, il cui epilogo è previsto per il prossimo 12 luglio.
L’episodio è isolato. Nessuno, pur avendo molto da ridire, è mai riuscito a mettere in minoranza la famiglia Ligresti, o i vertici di Mediobanca, di Unicredit, del Monte dei Paschi, e via discorrendo sugli emolumenti. I quali, come evidenzia uno studio di Frontis Governance pubblicato il 22 maggio, sono saliti mediamente del 14% a fronte di ritorni per gli azionisti (azioni e dividendi) a meno 19 per cento. Anche nel cuore della City le paghe sono aumentate 10%, secondo uno studio condotto dai consulenti di Manifest/MM&K, e il Ftse 100 ha perso il 7% circa da un anno a questa parte. Difficile, dicono da Consob, vedere delle modifiche al Tuf per rendere vincolante il voto contrario dell’assemblea, poiché sta all’Europa emettere una raccomandazione in questo senso, esattamente come già avvenuto nel 2010 per la trasparenza sulle politiche di remunerazione. I piccoli azionisti sono avvisati: conviene puntare le proprie fiches sulle persone giuste, oppure investire in Btp.
Twitter: @antoniovanuzzo