Dal Pakistan allo Yemen, dall’Iran all’Afghanistan, i velivoli senza pilota (Uav) che solcano cieli ostili in cerca di nemici da eliminare o di informazioni da carpire sono ormai diventati l’arma simbolo della potenza militare Usa e della politica estera obamiana. Al punto che – se volessimo rivisitare la celebre definizione di John Winthrop per cui l’eccezionalismo del Nuovo Mondo renderebbe l’America «una città sulla collina» – oggi potremmo ribattezzare gli Stati Uniti «a drone upon a hill».
Silenziosi, dotati di straordinaria autonomia, gli Uav (i droni) colpiscono con precisione gli obiettivi posti sul terreno, registrano video ad alta definizione e soprattutto azzerano le perdite umane (almeno quelle statunitensi). Nel giro di dieci anni la quantità di droni a disposizione del Pentagono è aumentata del 14mila per cento (!) – da circa 50 a oltre 7mila – e nel 2020 gli effettivi dovrebbero essere almeno 30mila. Un aumento vertiginoso cui l’esercito però non riesce a far fronte. Troppe unità da pilotare, troppi modelli da custodire, troppi dati da scandagliare e analizzare.
Il grido d’allarme è stato lanciato per la prima volta lo scorso febbraio da Michael Donley, il segretario all’Aeronautica, che ha annunciato il congelamento per almeno due anni del numero di pattuglie – squadriglie composte fino a quattro droni – «per metterci in pari con la produzione industriale». A breve le soluzioni potrebbero arrivare dal mondo della televisione e degli smartphone, ma al Dipartimento della Difesa temono d’essere travolti dalle necessità della crescente guerra robotica.
A preoccupare il Pentagono è innanzitutto la penuria di piloti. Già adesso l’Air Force avrebbe bisogno di 400 ulteriori “operatori” per manovrare la sua flotta di robot in espansione. Seduti di fronte ad uno schermo HD e dotati di un joystick molto simile a quello dei videogame, gli aviatori di ultima generazione guidano droni che si alzano da basi poste a decine di migliaia di chilometri di distanza. Il compito richiede una preparazione specifica e – visto che sul teatro di guerra la realtà virtuale tende ad assumere contorni assai reali – anche di centinaia di ore di simulazione. Per questo il Pentagono sta inaugurando in queste settimane alcune iniziative che, entro il 2015, dovrebbero permettere di contare su 700 nuovi piloti. Su tutte, la creazione di diplomi militari ad hoc e l’assunzione di istruttori in grado di introdurre le reclute alla “unmanned warfare”. Mentre per accogliere i droni attualmente in produzione, è previsto un investimento record da 1,5 miliardi di dollari per la costruzione di nuove basi.
Diametralmente opposta alla mancanza di piloti è l’immensa mole di dati e immagini che gli Uav raccolgono in giro per il mondo e che i funzionari non riescono a visionare in tempo. I numeri sono da capogiro. Ogni mese finiscono negli archivi 10mila ore di filmati che nessuno analizza e l’esercito avrebbe già almeno due anni di arretrati. Si tratta di immagini ritenute non essenziali per le missioni attuali, ma che potrebbero contenere informazioni necessarie a programmare attacchi in alcune delle aeree più calde del pianeta. Per ovviare al problema, il Darpa – l’agenzia del Pentagono per l’innovazione – sta pensando di equipaggiare le telecamere dei droni con dei filtri algoritmici capaci di individuare i dati rilevanti, ma il rimedio più efficace sarebbe da ricercare nell’expertise televisiva.
Secondo quanto affermato in un dossier della Rand (il think tank vicino al Dipartimento della Difesa), l’Aeronautica vorrebbe importare dai reality show le tecniche usate dai registi per isolare le sequenze migliori. Proprio come succede al Grande Fratello, posti a 15mila metri di altezza i droni stealth riprendono ore e ore di nulla fino a che, all’improvviso, non si materializza sullo schermo un evento considerato sensibile. È imperativo dunque – si legge nel rapporto – che, come avviene in una cabina di regia, le postazioni di pilotaggio siano composte da una plancia di monitor e che davanti ai video ci sia sempre qualcuno pronto a rilevare in tempo reale quanto accaduto e a “taggarlo” nella banca dati. Inoltre, per ottimizzare la comunicazione interna, il Pentagono vorrebbe sostituire la chat con le stesse cuffie indossate dai produttori tv.
A rallentare le operazioni è poi l’assenza di una cloche unica per condurre gli Uav. Al momento esistono una dozzina di droni diversi e ogni modello è fornito di un joystick specifico, incompatibile con gli altri. Il risultato è che, per rispettare la proprietà intellettuale del software di controllo realizzato dalle varie industrie belliche, nel passaggio da un Uav all’altro, i piloti sono costretti ogni volta a cambiare la barra di comando. Il direttorio della Difesa per la tecnologia e la logistica sta però studiando un sistema utile a manovrare robot di marche differenti. «L’idea, come con gli smartphone, è quella di prelevare servizi e applicazioni specifiche da un “App Store” militare», ha spiegato Rich Ernst, il capo dell’unità deputata ai sistemi di controllo degli Uav.
La californiana Dream Hammer è la prima azienda ad aver sviluppato di recente un programma che permette ai piloti di guidare velivoli diversi: il sistema Ballista. Una sorta di software elastico che si adatta a quello originario, Ballista è ancora in fase di sperimentazione, ma – come le altre innovazioni al vaglio del Pentagono – la sua applicazione potrebbe accelerare notevolmente i tempi di reazione dei piloti. E permettere agli Stati Uniti di mantenere il primato sui droni. In attesa che la guerra dei robot diventi planetaria.