Nella nostra epoca comprendiamo abbastanza bene che cosa è l’affanno – un sinonimo attuale potrebbe essere “stress” – con tutto ciò che comporta, con gli ansiolitici e i sedativi, il lavoro affannoso come droga. L’uomo ha bisogno di vita, perché ha paura di morire, allora pensa di garantirsela accumulando i beni. Perché si accumula? La radice dell’accumulo è l’ansia, l’affanno, la paura che venga meno la vita.
Matteo 6, 25-34
Perciò vi dico: per la vostra vita, non affannatevi di quello che mangerete o berrete e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete. La vita forse non vale più del cibo? E il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Imparate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano, eppure io vi dico che neanche Salomone con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?
Non affannatevi dunque, dicendo che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si affannano i pagani. Il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Gran parte della nostra vita non è occupazione ma pre-occupazione, dove esauriamo tutte le nostre energie senza occuparci: questo è l’affanno. L’affanno è un po’ anche il lacerarsi, lo smembrarsi. La parola greca originale significa questo: “dividere, far le parti”, quindi un dividersi, uno spappolarsi. Praticamentem l’affanno è vivere anticipatamente la morte. È l’ansia di vita che è dettata dalla paura della morte. Hai paura che ti venga meno e allora accumuli. Alla lunga poi diventa paura di vivere e ansia di morire anche. L’affanno è anche il nostro modo normale di vivere. Invece la vita è qualcos’altro: è che siamo figli del Padre e che siamo fratelli. Quindi inutile vivere nell’affanno e accumulare.
Ma come la mettiamo con i bisogni primari? Che mangiare, che bere, che indossare? La vita è un dono, ma anche il mantenimento è un dono: se Dio ci ha dato la vita, ci darà anche ciò con cui mantenerci. E, come la manna, viene dato quotidianamente: se tu l’accumuli, marcisce. Così la vita accumulata nell’affanno marcisce, non è più vita, è vita deteriorata. Tra l’altro, a differenza dell’animale, per l’uomo il cibo e il vestito è frutto di lavoro. L’animale nasce già vestito, e il cibo lo trova. L’uomo, invece, deve occuparsi, a differenza dell’animale, per produrre. Ma un conto è occuparsi e un conto è preoccuparsi, vivere questo come senso della vita. Ciò che questo brano vuole smontare è proprio il finalizzare la propria vita umana e spirituale alla vita animale, cioè al mangiare e al vestire.
Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Diceva Girolamo, l’occupazione è da fare, la preoccupazione è da togliere. Un conto è il lavoro, un altro conto è l’affanno. L’affanno c’è quando tu prendi di mira come senso della tua vita il lavoro, perché quello diventa la tua vita. Se invece il fine della tua vita è ricevere in dono dal Padre quello che c’è, collaborare con lui e poi condividerlo coi fratelli, non hai grande ansia, e vivi nel tuo lavoro la vita filiale e fraterna. E certamente il pane è dato per tutti e il vestito è dato per tutti, se noi viviamo da figli e da fratelli: la garanzia di poter sopravvivere sulla terra è questa qui. Se viviamo nell’ansia e nell’accumulo, non ci sarà da vivere, non ci sarà da vestire. E quelli che avranno tanto vivranno male nell’ansia e gli altri saranno senza. Come è, di fatto, adesso.
Ogni affanno è sempre per il dopo e toglie le energie per fare quello che uno sta facendo qui e ora. Avete notato la grande fatica che si fa a fare un lavoro quando si è preoccupati per un altro? E quanto renda, invece, un lavoro quando si è concentrati su quello? La grande stanchezza – in genere noi notiamo un grande stress – non è data dal lavoro fatto: è la preoccupazione del lavoro da fare che dà stress. Del lavoro fatto ti riposi, è di quello ancora da fare che ti stanchi, che ti stressi. Io oggi non posso portare le inquietudini di domani. Mi bastano quelle di oggi. Quelle di domani mi sono insopportabili per due motivi: perché sarebbero il doppio – e non ce la fai a portare il doppio – e poi perché non ci sono, ci saranno domani. Cosa vuoi fare? Magari sei già morto domani, sii contento di quel che hai fatto oggi e godi. Vuoi preoccuparti anche di quello di domani? Proprio questa preoccupazione del domani è diabolica perché ci lacera e ci impedisce di vivere, perché domani non c’è ancora: così facendo, vivo nel “non c’è”, non vivo, cioè.
Si può, allora, dare anche un consiglio. Quando uno è preoccupato e affannato – cosa succederà, come andrà a finire… –, supponga una cosa semplicissima: succederà che muori, e vai a trovare il Padre. Per mal che vada, dunque, avviene una cosa buona. Dopo succederà quel che deve succedere. Ma che io debba vivere in ansia tutta la vita dicendo che cosa succederà, è una non vita. Cosa vuoi che succeda? Se va male, muori, e se muori torni a casa.
*biblista e scrittore
Il testo è la sintesi redazionale della lectio divina tenuta nella Chiesa di San Fedele in Milano nel corso di vari anni. L’audio originale può essere ascoltato qui.
Nella foto, Lorenzo Pietrogrande, «Uccelli del cielo», tecnica mista 2012 – per gentile concessione della Galleria Blancheart (Milano)