«Uno che accetta le ingiustizie non sarà mai cristiano»

«Uno che accetta le ingiustizie non sarà mai cristiano»

Il pane che si condivide in casa, è anche una parola: è segno dell’affetto, dell’amore, della condivisione. Se però non si dice mai questa parola, non si esprime mai questo amore, quel pane perde il suo significato. Se però non è colta questa parola esterna come parola interiore di gioia, di piacere, compiacenza, non è colto niente.

Quando uno ti dice una parola, ti dice qualcosa, ma contemporaneamente ti dice un’altra cosa, che è quella parola interiore che senti quando ascolti una parola. Un esempio per capire: se uno ti dice la parola: “ti detesto”, questa è una parola e la capisci. Però senti dentro un’altra parola: una grande tristezza. Se uno ti dice: ti voglio bene, tu senti la parola eterna e dentro senti una parola interna che è la gioia. Quindi, c’è un linguaggio interiore dato soprattutto dalla gioia o dalla tristezza, dalla attrazione o dalla repulsione, che è il modo più proprio di parlare. E noi agiamo sempre in base a questa parola interiore. È anche in questo modo che Dio parla al cuore dell’uomo.

Marco 14, 12-16
Il primo giorno degli Azzimi quando si immolava la Pasqua, gli dicono i suoi discepoli: “Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu mangi la Pasqua?” E invia due dei suoi discepoli e dice loro: “Andate nella città e vi verrà incontro un uomo che porta un vaso d’acqua. Seguitelo. E dovunque egli entri, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: dov’è il mio luogo di riposo dove io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?” Ed egli vi mostrerà una stanza superiore, grande, arredata, preparata, e lì preparate per noi. E uscirono i discepoli e vennero nella città e trovarono come disse loro e prepararono la Pasqua.

Il problema centrale del brano è preparare la Pasqua. In concreto, preparare dove mangiare la Pasqua: la “stanza superiore”, che evidentemente non è un luogo materiale, qualunque luogo va bene, è un luogo interiore. Come faccio a trovare quel luogo dove io mangio, vivo? Perché se non lo vivo è inutile.

La prima cosa per preparare la Pasqua è sapere che cos’è. Essa è il grande avvenimento fondante la religione ebraica. Quindi occorre recuperare le nostre radici ebraiche. Senza queste “radici ebraiche” la pianta cristiana è una pianta che produce frutti ma di plastica, perché non ha radici. Le radici stanno nella promessa fatta a Israele. E la Pasqua vuol dire innanzi tutto la liberazione dall’ingiustizia e dalla schiavitù. Uno che accetta le ingiustizie e gli va bene essere schiavo, non capirà mai, non entrerà mai in quella “stanza superiore”, sarà sempre fuori, non sarà mai uomo, tanto meno cristiano. Quindi il primo significato elementare della Pasqua è suscitare nell’uomo questo desiderio di libertà, di giustizia e di fraternità che ha fondato il popolo ebraico, l’uscita dalla schiavitù dell’Egitto. Secondo aspetto fondamentale della Pasqua, è che lì finisce l’idolatria, ossia la falsa immagine di Dio. Noi abbiamo tutti una immagine di un Dio tremendo che sta sopra di noi, ci domina, controlla e punisce. La Pasqua cristiana, cioè la Croce di Gesù, libera da questo Dio: Dio è colui che ci ama e dà la vita per noi. La distanza infinita tra Dio e l’idolo è proprio la Croce.  Tutti immaginano un Dio al quale fare sacrifici per tenerlo buono – il che suppone che sia cattivo – e invece il Vangelo si presenta il sacrificio di Dio all’uomo; un sacrificio che nemmeno Lui vorrebbe, ma l’uomo lo uccide e allora Lui dice: va bene, se proprio così la tua violenza finisce, e comincia la vita nuova, accetto anche questo come segno di un amore infinito, che si chiama “dare la vita”. Terzo aspetto connesso alla Pasqua è l’uscita dal peccato: il peccato è proprio questa mancanza di libertà data dalle nostre paure. 

Il padrone di casa, che siamo ciascuno di noi, mostrerà una “stanza superiore”: cioè, dov’è che abita Dio? In Israele le case sono normalmente un monolocale dove sotto ci si ripara, si mangia in famiglia, normalmente, poi si lavora fuori e si vive fuori, la sera ci si ritira e lì si mangia in intimità. Però le case anche dei poveri avevano un terrazzo dove ci si ritirava per la preghiera o per prendere l’aria fresca. Le case più ricche avevano, oltre il terrazzo, una stanza superiore, dove non si lavorava, dove ci si ritirava per i banchetti, per la preghiera, fuori dalle occupazioni ordinarie. Il che vuol dire una cosa: che il mio io più profondo e Dio non lo trovo in ciò che faccio, cioè non è qualcosa che faccio. Sta un po’ sopra o un po’ sotto. Non è che debba fare infinite cose per trovarlo o che debba produrlo: non è da produrre, c’è già. È fuori dalle nostre operazioni. Non è qualcosa da fare, è qualcosa che ci fa. Per cui la vera attenzione è da spostare da ciò che facciamo a ciò che ci fa. Noi siamo innanzitutto figli, fatti, creati, e nel luogo dove siamo fatti e creati sperimentiamo la nostra verità, ciò che siamo. Ciò che facciamo poi è un risultato, ma guai a identificare l’uomo con ciò che fa. Quindi, questo luogo, per sé l’abbiamo tutti, ed è indipendente da ciò che facciamo, sta al di fuori di ciò che facciamo, poi lo vivrai in tutto ciò che fai, ma sta al di fuori. Bisogna saper emergere dalle proprie occupazioni per trovarlo. Uno che è sempre indaffarato, fuori di sé in tutte le mille cose, e non rientra in sé, non trova mai il centro, è un uomo disperso. Oggi viviamo in modo particolare una vita dissennata, fuori di sé, una vita pazzesca. Abbiamo bisogno di “staccare”. Lì è il luogo di riposo di Dio e di riposo nostro. Lì è il luogo dove Lui mangia con noi e noi mangiamo con Lui. Dentro il cuore di ognuno c’è uno spazio così grande che ci sta il mondo intero. E più ne metti dentro e più ce ne stanno, perché e semplicemente l’amore che ti allarga il cuore. E più ami, più è grande. 

Il testo è la sintesi redazione della lectio divina tenuta dell’autore nella Chiesa di San Fedele in Milano. L’audio originale può essere ascoltato qui.

Nella foto, Pietro Spica, «Naviganti», acquarello su carta, cm 22 x 30 – per gentile concessione della Galleria Blanchaert
 

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