Sogno o son desto? A leggere i quotidiani, a soffermarsi su quel che sta accadendo nelle stanze dei bottoni del Partito democratico, c’è da rimanere a bocca aperta. Increduli, ma tutt’altro che delusi. Sarà l’effetto Grillo, sarà l’insofferenza per un partito che, pur essendo da mesi stabilmente in testa ai sondaggi, resta una massa informe di cui è difficile scorgere gli obiettivi e le strade da percorrere per raggiungerli. Fatto sta che qualcosa sta cambiando nel Pd e in un modo tanto repentino quanto imprevedibile.
D’improvviso il partito sembra risvegliarsi da un letargo di anni (per limitarci alla sola breve vita del Pd) e comincia a parlare un linguaggio comprensibile persino per gli umani cittadini, quelli che non sanno che cosa sia il Mattarellum, quelli che non capiscono come si possa esultare a vittorie elettorali di candidati arrivati lì proprio dopo aver sconfitto uomini del Pd.
D’improvviso, però, tutto questo sembra spazzato via. Pier Luigi Bersani, il segretario, osa l’inimmaginabile e dice sì alle primarie di partito. Addirittura trapela una data, il 14 ottobre, quinto anniversario della nascita del Pd, e Bersani si augura di non essere l’unico candidato. PRI–MA–RIE VE–RE. Avete capito bene. Roba rivoluzionaria per un partito che ha fatto della tenuta delle rendite di posizione il proprio modello statutario.
Il segretario emiliano, in fondo il più moderno del partito, il più “normale”, quello che magari va anche in un pub a bersi una birra a ora di pranzo, ha capito – o almeno sembra di aver capito – che continuando a rispettare le logiche interne sarebbe finito logorato come i suoi predecessori. Ha capito – almeno così sembra – che lalegittimità della sua leadrship passa da una competizione vera cui partecipino tutti. Ha capito – almeno così sembra – che se non trova il coraggio di scrollarsi di dosso chi ha fatto della politica una professione a prescindere dal consenso, anche stavolta il partito rischia di arrivare alle elezioni da favorito e di uscirne aprendo il tradizionale processo interno.
Che primarie siano, quindi. Come negli Stati Uniti. Sfida vera. Sotto a chi tocca. Da Renzi in giù o in su, fate voi. Ma in modo che dopo nessuno possa alzare una mano o bofonchiare qualcosa. I trials, quello che in Italia è impensabile. Chi arriva primo va alle Olimpiadi, gli altri a casa.
Ma Bersani non è il solo aspetto positivo di questo processo di risveglio.Altri segnali giungono anche dai dirigenti, per ora da quelli che vengono definiti i giovani, anche se tra Stefano Fassina e Matteo Orfini ci sono nove anni di differenza: 45 il primo, 36 il secondo. Dirigenti che fino a ieri, almeno da chi scrive, erano percepiti come quei tanti funzionari di partito che di fatto si erano messi in fila per attendere pazientemente il proprio turno. Fassina e Orfini hanno alzato la mano due giorni fa per dire che il governo Monti si è rivelato una delusione e che sarebbe preferibile andare alle urne a ottobre.
Apriti cielo. In realtà hanno detto quel che pensano gran parte degli italiani. E che domenica scorsa documentava anche il consueto sondaggio di Ilvo Diamanti su Repubblica: in sette mesi il gradimento del governo Monti è calato di oltre trenta punti percentuali: un’enormità.
Non solo, oggi Orfini rilascia un’intervista al Fatto quotidiano in cui non risparmia nessuno. Con un linguaggio che dalle parti del Pd, e probabilmente un tempo dallo stesso Orfini, sarebbe stato bollato come “irresponsabile e ingrato”. Ma i tempi cambiano. Sarà la paura di Grillo, sarà la consapevolezza che gli elettori sono diventati più mobili di una donna e pronti a spazzarti via in meno di due giorni, fatto sta che Orfini stavolta sembra davvero un giovane. Ne ha per tutti: da Bindi a Franceschini, da Letta a Vetroni, senza trascurare Mario Monti ( “Il Pd ha dieci ministri molto, molto, molto migliori di questi”) né Bersani (“Se un partito che aspira a fare le riforme non parte dall’idea di poter fare molto meglio di Monti, vuol dire che ci pensa questo deve smettere subito di far politica e trovarsi un altro mestiere”).
Nella lista c’è persino Ezio Mauro, direttore di Repubblica. Ecco cosa dice Orfini: “Ho letto che Ezio Mauro dice che il Pd deve essere scalabile. Io credo che sia giusto aprire alla società civile. Ma che la società civile debba trovare posto in questo partito. Se la scalabilità vuol dire che il Pd deve decapitare la sua classe dirigente perché agli editorialisti non piace, allora anche Repubblica deve diventare scalabile visto che è diretta da sedici anni dallo stesso uomo”. Parole fino a ieri impensabili per un partito come il Pd. Chissà, magari qualcosa sta cambiando davvero.