Il feuilleton processuale della nuova Libia è partito, un mese fa, con il caso di Abu Zeid Dorda, ex funzionario dei servizi segreti nell’era della Jamahiriya, arrestato a Tripoli lo scorso settembre. Una parte dell’attuale classe dirigente è composta da gheddafiani che hanno disertato al momento giusto, a partire dal leader del Consiglio Nazionale Transitorio, Mustafa Abdel Jalil. Al Cairo, lo scorso 27 maggio, il cugino del Colonnello, Ahmed Kadhaf Al Dam, si è incontrato con il leader religioso Ali Sallabi, presentatosi come rappresentante del Cnt. Ma all’orizzonte non c’è alcun Mandela e la strada segnata non sembra quella della riconciliazione, secondo il modello sudafricano. Chi ha difeso il regime fino in fondo è destinato alla sbarra. L’apologia del gheddafismo è già diventata un reato – anche se la legge è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema – mentre è partita la caccia ai lealisti che hanno riparato all’estero, come il potente capo dell’intelligence, Abdullah Senussi.
Il quattro giugno una ventina di mercenari, in gran parte ucraini, sono stati condannati a dieci anni di lavori forzati per il sostegno dato al regime durante la guerra civile. Al loro coordinatore, un russo, è toccato l’ergastolo. Quello di Dorda, personaggio dell’inner circle gheddafiano, accusato di sei reati, tra cui la cospirazione volta all’uccisione di civili, è il primo test giudiziario che vede protagonista un funzionario di rango, in attesa della vera cartina di tornasole della rule of law libica, il processo al secondogenito di Gheddafi, Saif al Islam.
Il caso è in una fase di stand-by. In atto ci sono due conflitti. Il primo è quello relativo alla giurisdizione, tra le autorità libiche e la Corte Penale Internazionale dell’Aja, che nel giugno del 2011 ha emesso un mandato di cattura nei suoi confronti, per crimini contro l’umanità. Tripoli vuole giudicare in prima persona il detenuto più celebre della Jamahiriya, per trasformare il processo in un simbolo della catarsi nazionale. La Cpi nutre qualche dubbio sull’affidabilità giuridica dei libici, una perplessità condivisa dalle organizzazioni per i diritti umani. La matassa non è stata ancora disbrigata, tant’è che le procedure di estradizione restano ferme.
Il meccanismo difficilmente si attiverà in tempi brevi – e questo è il secondo conflitto – perché in realtà Saif non è mai arrivato neppure a Tripoli. Il figlio del Colonnello è ancora nelle mani dei guerriglieri di Zintan che l’hanno catturato lo scorso novembre. Le ragioni della mancata consegna, secondo i thwarts, sono unicamente di ordine economico: i militanti reclamano sei mesi di stipendio per il loro impegno nella guerra civile, quantificato in 1,7 milioni di dinari, poco più di 1,3 milioni di dollari. Il Cnt, da qualche settimana, ha sospeso i pagamenti destinati a ricompensare le brigate che hanno combattuto Gheddafi, a causa dell’emergere di abusi e irregolarità. L’affare si è complicato ancora di più quando, il 7 giugno, un team della Cpi – l’avvocato d’ufficio, Melinda Taylor, e tre assistenti – è stato arrestato con l’accusa di avere cercato di recapitare al prigioniero “documenti pericolosi”, provenienti dall’ex braccio destro del Colonnello, Mohammed Ismail. Lo staff dell’Aja è stato poi liberato, dopo settimane di trattative, lo scorso 2 luglio.
Mentre Saif attende il suo destino, l’iter giuridico dell’ex premier libico Baghdadi Mahmoudi è a uno stadio più avanzato: il 24 giugno è stato estradato dalla Tunisia, dove era fuggito durante la guerra civile. Mahmoudi era stato arrestato a settembre, al confine con l’Algeria, per “ingresso illegale” nel territorio dello Stato. Prima condannato, poi assolto, era rimasto in carcere, per via del mandato di cattura spedito da Tripoli. Il primo ministro tunisino Hamadi Jebali ha avuto un ruolo decisivo nell’accogliere la richiesta della Libia. La mossa del premier, data dalla necessità di costruire un rapporto cooperativo con il vicino, soprattutto sul piano economico, ha portato a un durissimo scontro con il presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, contrario al provvedimento e soprattutto scavalcato nelle proprie prerogative.
Il capitolo giudiziario più avvincente è quello che vede protagonista Abdullah Senussi. L’ex storico capo dei servizi segreti gheddafiani è detenuto in Mauritania, dove è stato arrestato lo scorso 16 marzo con l’accusa di essere entrato nel Paese con documenti falsi (ha varcato la frontiera marocchina vestito da Tuareg, con un passaporto maliano). Senussi ha molti scheletri nell’armadio e la posta di Nouakchott è stata inondata dalle richieste di estradizione.
In cima alla lista, ovviamente, c’è la Libia, che lo accusa di avere orchestrato il massacro nel carcere tripolino di Abu Salim, nel 1996, quando 1.200 prigionieri, in buona parte oppositori politici, persero la vita. Ma a voler mettere le mani sul prigioniero c’è anche la Francia, dove Senussi è stato condannato, in contumacia, all’ergastolo. Un tribunale di Parigi lo ha dichiarato colpevole per il suo coinvolgimento nell’attentato contro il Dc-10 della Uta, in Niger, avvenuto nel settembre del 1989, in cui morirono 170 persone. A chiudere il cerchio c’è la Corte Penale Internazionale, che ha emesso un mandato di cattura contro Senussi «per avere perpetrato in maniera indiretta crimini contro l’umanità, omicidi e persecuzioni per motivi politici». L’inchiesta riguarda il ruolo avuto nella repressione della rivolta di Bengasi, ad inizio 2011.
In questa battaglia diplomatica, la Libia sembra essere il front runner. I legami tra i due Paesi sono stretti e Tripoli ha già minacciato Nouachkott di severe ripercussioni in casi di rifiuto. Il 4 luglio è sbarcato in Mauritania il premier libico al Keib. Il caso Senussi viene considerato con un occhio di riguardo, perché l’ex capo degli 007 è a conoscenza di tutti i segreti della Jamahiriya, degli intrighi di corte e dei legami con i movimenti terroristici internazionali.
Scavando nel passato si aprirebbe inevitabilmente il vaso di Pandora. Non lo possono più fare né Abdel Basset Ali al-Megrahi, l’unica persona ad essere stata condannata ufficialmente per la strage di Lockerbie del 1988, morto più di un mese fa per cause naturali, né Shokri Ghanem, ex ministro del Petrolio, fuggito a Vienna durante la guerra civile, trovato misteriosamente annegato nel Danubio il 29 aprile. Era in procinto di ricevere un mandato di arresto, nell’ambito di un’indagine sui contratti di settore firmati in era gheddafiana. Sembrava che avesse deciso di collaborare, in cambio dell’immunità. Tra i cacicchi del vecchio regime, però, c’è chi ha avuto una sorte migliore, Abdessalam Jalloud. L’ex numero due del Colonnello, caduto in (relativa) disgrazia all’inizio degli anni Novanta, era scappato dalla Libia nell’agosto 2011. Il suo ultimo avvistamento? Il ristorante dell’hotel Shangri-La, Avenue d’Iéna, sedicesimo arrondissement di Parigi.