Gli appassionati di calcio ormai lo sanno bene: se l’Italia riesce a fare bella figura nelle competizioni internazionali, o per lo meno a non rimediare troppe figuracce, è in buona parte merito della difesa. Che il paragone sia stiracchiato o meno, l’assioma sembra però valere anche per quanto riguarda la produzione industriale: nonostante il pessimo panorama economico e finanziario, è proprio nel settore difesa e aerospazio che la produzione manufatturiera italiana ha dimostrato di saper reggere meglio il confronto con l’estero.
È quanto emerge dalla relazione di esercizio 2011 pubblicata in giugno dall’Aiad, la federazione di Confindustria che raggruppa le aziende italiane operanti nell’ambito di aerospazio, difesa e sicurezza: «La disponibilità di un portafoglio prodotti innovativo e competitivo ha fatto sì che le esportazioni militari italiane siano rimaste sostenute», cita la relazione, che parla di «una modesta decrescita in valore delle operazioni effettuate verso terzi, attestatesi intorno a 2,7 miliardi di euro, ed un leggero aumento delle esportazioni autorizzate verso terzi, pari a circa 3 miliardi di euro, mentre le esportazioni concernenti i 21 programmi di co-produzione intergovernativi sono in decisa ripresa da 345 a 2.200 milioni di euro, con riflessi positivi nel medio termine per il portafoglio ordini delle industrie». Numeri che fanno dell’industria italiana del settore la quarta realtà a livello europeo e la settima a livello mondiale. Un risultato notevole, se si considera che tra la concorrenza figurano colossi del calibro di Stati Uniti, Cina, Russia, Regno Unito, Francia e Germania.
Ma qual è il modulo di questa Italia che gioca così bene in difesa? Soltanto le aziende federate all’Aiad sono oltre 150. La struttura dell’offerta nazionale si concentra in buona parte attorno a quattro grandi gruppi, Finmeccanica, Fincantieri, Iveco e Avio, e ad alcune altre aziende di dimensioni medio-grandi con capacità autonome. Il resto è rappresentato da circa 120 piccole e medie imprese che si occupano della cosiddetta “supply chain”, ovvero la gestione della logistica e della catena di distribuzione, oppure rappresentano nicchie tecnologiche d’eccellenza.
Complessivamente, si parla di un bacino occupazionale che conta all’incirca 52mila addetti su tutto il territorio nazionale. Molte imprese sono riuscite ad allargare il proprio orizzonte produttivo al di là dei confini nazionali, in particolar modo negli Usa, nel Regno Unito e in Polonia, dove i posti di lavoro generati sono circa 30mila. Un esempio in questo senso è Finmeccanica, che da sola ricopre l’80% della produzione nazionale del comparto, con 71mila dipendenti, (il 57% in Italia, il resto in altri 50 paesi), 350 tra aziende direttamente controllate e partnership internazionali, il 40% degli ordini, 18,7 miliardi di euro di ricavi nel 2010 (+ 2,9% rispetto al 2009) e un portafoglio ordini da 48,7 miliardi di euro.
Da notare è come i mercati più importanti per le esportazioni del comparto difesa siano proprio alcuni di quelli che risultano essere anche tra i principali produttori: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania tra tutti. La produzione nostrana ora sta volgendo lo sguardo su nuovi scenari nei quali si disegnano interessanti prospettive di espansione, come i Bric (Russia, India e Brasile su tutti, con il mercato cinese come “sogno proibito”) e il mercato turco.
Tra i prodotti italiani più quotati sul mercato internazionale spiccano gli elicotteri dell’Agusta Westland AW101, AW139, e T129 (gli elicotteri d’attacco leggero “Mangusta”,), i nuovi addestratori M346, recentemente acquistati dalle forze aeree israeliane con un contratto del valore di 1 miliardo di dollari, i velivoli regionali ATR, il velivolo da trasporto tattico C27J, l’UAV Falco, i radar RAT31 e Grifo, e poi le corvette e i pattugliatori, le artiglierie navali (qui sul piccolo calibro è leader l’italiana Oto-Melara), i blindati Centauro, i veicoli LMV/VTLM Lince (di cui sono stati già venduti oltre 3mila esemplari in 10 paesi), i nuovi veicoli medi multiruolo ed i blindati trasporto truppe con capacità anfibia.
Tra le eccellenze della produzione nazionale figurano anche le nuove fregate Fremm (acronimo di Fregate europee multi-missione), siluri e sistemi di difesa antisommergibile, mine navali, sistemi di puntamento, sistemi elettronici e informatici per l’uso militare, e poi ancora pistole, mitragliatrici, fucili d’assalto e di precisione, attrezzature ed equipaggiamenti per gli incursori delle forze speciali. Solo per citarne un’altra davvero particolare, si potrebbe parlare dei booster a solido e della turbopompa a ossigeno liquido del motore Vulcain 2, quello che spinge il vettore spaziale europeo Ariane 5, e che vengono realizzati da Avio negli stabilimenti di Colleferro e di Rivalta. La lista è lunghissima, e in continua espansione.
Come si mantengono standard così elevati? Secondo gli operatori del settore non è sufficiente sfornare un buon prodotto e sedersi sugli allori quando questo ha successo. Bisogna investire costantemente in ricerca e sviluppo, per mantenere livelli competitivi e non rischiare di perdere colpi. Ed è per questo che nei bilanci delle aziende di questo segmento figura una media del 12% di investimenti in ricerca e sviluppo, non solo tra i grandi gruppi industriali, ma anche nelle realtà più piccole. Ma se il settore privato ci crede e investe su se stesso, altrettanto non si può dire degli investimenti pubblici.
Stando ai numeri riportati dalla rivista Analisi Difesa, infatti, nel 2011 gli stanziamenti statali per la difesa ammontavano a circa 14 miliardi di euro, lo 0,92% del Pil, contro i 38,3 miliardi di euro della Gran Bretagna (2,37% deli Pil), i 32,1 miliardi della Francia (1,61% del Pil), e i 31,3 della Germania (1,28% del Pil). Detto in parole povere, non raggiungiamo neanche la metà, di quel 2% di Pil che la Nato prevede come obiettivo per i propri Paesi membri. Come se non bastasse, il 65% degli stanziamenti se n’è andato in stipendi per il personale militare e civile, e solo il 24% è stato effettivamente destinato agli investimenti.
Anche la spinosa questione dei tanto vituperati caccia F-35 merita qualche considerazione sotto questo preciso aspetto. Risparmiare in tempo di vacche magre è una necessità, e la scelta del ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, di ridurre da 131 a 90 gli esemplari acquistati dall’Italia va in questo senso. Per molti lo sfrondamento non è stato sufficiente, e sarebbe stato meglio rinunciare per intero al programma. Al di là delle considerazioni politiche, resta però un dato di fatto: l’F-35 è un programma nel quale le industrie italiane svolgono un ruolo di primaria importanza. Si parla infatti di oltre 40 siti industriali nazionali coinvolti a vario titolo nel progetto, con gli stabilimenti di Alenia Aeronautica, Avio, Piaggio, Aerea, Aermacchi, Datamat, Galileo Avionica, Gemelli, Logic, Selex Communication, Selex-Marconi Sirio Panel, Mecaer, Moog, Oma, OtoMelara, Secondo Mona, Sicamb, S3Log, e Vitrociset sparsi in 12 regioni italiane. Le stime più ottimistiche parlano di ricadute occupazionali per oltre 10mila posti di lavoro, direttamente o indirettamente collegati al programma. Ai quali vanno poi ad aggiungersi quelli dei di tecnici che nello a Cameri, in provincia di Novara, dovranno effettivamente assemblare gli oltre 200 velivoli destinati a soddisfare le commesse di Italia, Olanda e Norvegia.
Investire oculatamente nella difesa rappresenta oggi una necessità imprescindibile per un Paese impegnato su numerosi scenari internazionali, chiamato ad affrontare le crescenti minacce del terrorismo e a tutelare i propri legittimi interessi economici. Continuare a penalizzare un settore chiave per gli interessi strategici nazionali con il solito gioco della coperta corta, o con preconcetti su base ideologica, può seriamente rivelarsi una pratica miope sia sul breve che sul lungo periodo. Servono un’accurata pianificazione e razionalizzazione delle spese, è vero, e in questa direzione sembra voler andare la riforma del sistema difesa presentata a febbraio dal ministro Di Paola, che punta ad avere forze armate meno numerose ma più efficienti, sfrondando i rami secchi e dirottando le scarse risorse a disposizione sulla qualità, sulla tecnologia e sulla preparazione. Ma tagliare tout-court, senza badare a quali rubinetti si vanno chiudendo, vuol dire confondere una doverosa parsimonia con l’autolesionismo.