Ormai dare le colpe ai tedeschi per i mali di casa propria è diventato uno sport nazionale. Ora però, forse complice il clima da olimpiadi, Sergio Marchionne ha deciso di puntare all’oro in questa disciplina. Per il manager italo americano i mali del mercato dell’auto europea sono esacerbati dagli sconti che applica Volkswagen e dal fatto che i marchi tedeschi, che a parte Opel stanno reggendo molto meglio di Fiat alla crisi, non vogliono partecipare ad una riduzione collettiva della capacità produttiva. Niente male per un uno che dovrebbe essere un uomo di mercato.
Le dichiarazioni di Marchionne sono in un articolo del New York Times che analizza il mercato dell’auto europea e la sua conclamata sovracapacità produttiva. Basta pensare che i dati dell’Associazione europea dei produttori d’auto prevedono quest’anno 12,4 milioni di auto vendute, tre milioni in meno che nel 2007. Il numero uno di Fiat rilancia le critiche ai produttori tedeschi, soprattutto verso la virtuosa Volkswagen, colpevole per via della sua politica di sconti aggressivi: «è un bagno di sangue sui prezzi e sui margini» e Wolsfburg gli ha risposto a muso dire dicendo che «Marchionne è insopportabile come presidente dell’Acea», l’associazione delle case automobilistiche europee, e chiedendogli di dimettersi da quel ruolo.
Ad essere in profonda crisi sono soprattutto i produttori del sud Europa. La francese Peugeot quest’anno perderà un miliardo di euro, sta lottando col governo francese per chiudere lo stabilimento di Aulnay mentre le agenzie di rating fanno sprofondare sempre più le sue obbligazioni in territorio “junk” e i cds, i contratti con cui ci si assicura contro il fallimento di un ente, ora danno un 51% di probabilità che il produttore francese vada gambe all’aria in 5 anni. Anche altri produttori come Ford non stanno navigando in buone acque e il New York Times ricorda che «secondo alcune stime l’industria europea nella sua interezza sta operando in una forchetta fra il 60 e il 65% della sua capacità. Come regola generale, dicono gli analisti, per essere redditizi gli impianti devono operare ad un tasso fra il 75 e l’80». Dati che potrebbero essere ancora peggio per alcuni stabilimenti Fiat e che non riguardano invece la gran parte dei produttori tedeschi come Bmw e Mercedes che continuano a produrre quasi a piena capacità. D’altra parte è anche vero che, mentre in Germania nei primi sei mesi dell’anno, le vendite d’auto hanno retto, in Francia sono calate del 14% e in Italia del 20%. A giugno poi Portogallo e Grecia hanno registrato una flessione del 40%.
Ecco allora la necessità di riorganizzare la produzione. E qui il manager italo-canadese se la prende con la riluttanza teutonica a partecipare a uno sforzo europeo di razionalizzazione. Marchionne chiede che se ne occupi Bruxelles: «quello che dovrebbero fare è coordinare una razionalizzazione dell’industria fra i produttori». Già perché «quelli che non hanno realmente agito in questo senso sono francesi e tedeschi che non hanno ridotto per niente la capacità» e quindi «tutti dovrebbero fare dei tagli». Un punto che, per un uomo di mercato come lui, fa saltare sulla sedia. Va bene i francesi, ma perché mai i tedeschi che, tranne nel caso Opel, sono più bravi a fare e vendere auto dovrebbero ridurre la loro capacità produttiva? E poi è davvero colpa del mercato se i consumatori non vogliono più le Fiat e preferiscono le Volkswagen?
Anche ammesso che Marchionne abbia ragione sulla politica dei prezzi di Volkswagen in Europa, certi prezzi in Europa Volkswagen magari se li può permettere perché guadagna soldi a palate sui mercati asiatici e in Russia. Cosa che Fiat, anche se va bene negli Usa con Chrysler, non può fare: guarda caso, i danni causati dai ritardi pazzeschi e dagli errori di Fiat in Cina ora saltano fuori in tutta la loro evidenza. A Fiat manca oggi il mercato asiatico, che non è stato aggredito quando era ora di farlo.
In una logica strettamente industriale poi, è ovvio che la posizione di Marchionne sia inattaccabile: in qualsiasi settore produttivo, gli stabilimenti superflui rispetto alla quantità di beni che il mercato può ragionevolmente assorbire vanno chiusi. E non c’è dubbio che, invece di spendere miliardi di euro per incentivare con la rottamazione agevolata dell’usato gli acquisti di auto nuove che i clienti non hanno più i soldi per acquistare e che non si sa più dove mettere, lo Stato italiano (ma perché non l’Europa intera?) avrebbe fatto meglio a destinare almeno una parte di tali somme alla rottamazione-riconversione assistita delle fabbriche di auto, e magari anche qualche spicciolo per quella dei concessionari che boccheggiano.
Tuttavia è anche vero che una parte delle difficoltà europee di Marchionne sono anche figlie delle sue decisioni. Prima di tutto non si capisce per quale motivo i mercati (italiani, europei o mondiali) dovrebbero ritornare ad assorbire vetture italiane che non ci sono. A qualunque osservatore, infatti, risulta immediatamente evidente che nel ventaglio di modelli Fiat, Alfa Romeo e Lancia vi sono dei buchi spaventosi e che il costruttore nazionale ha abbandonato interi segmenti del mercato a una concorrenza che certo non ha mancato di approfittarne. Non esiste, oggi, una giardinetta italiana, né una berlina media di taglio popolare, né un’ammiraglia di segmento medio-alto (a meno che non si consideri tale la Lancia Thema che in realtà è praticamente americana al 100% e che d’italiano ha ben poco) né una Suv medio-piccola, e neppure una berlina sportiveggiante Alfa Romeo, marchio un tempo famoso proprio per le vetture di questo tipo. E per il momento rimane avvolta nella nebbia anche l’erede delle Fiat Bravo e Lancia Delta, ormai al termine della loro vita utile, scomparse le quali, se non arriveranno le sostitute (almeno una), il gruppo Fiat rimarrà (fino a quando?) a presidiare il segmento “C”, quello delle “compatte” che ha fatto la fortuna della Volkswagen Golf, con la sola Alfa Romeo Giulietta.
Marchionne continua ad attribuire i problemi del gruppo che dirige a un mercato che, tuttavia, il gruppo stesso non sembra in grado di stimolare con nuovi prodotti. In altre parole, Fiat sembra essere prigioniera di un circolo vizioso: «non proponiamo, non inventiamo, non fabbrichiamo nuovi modelli, perché non li venderemmo. Ma meno ne proponiamo, meno ne vendiamo». E a proposito di nuovi modelli, Marchionne dovrebbe spiegare qual è l’«inedita ricetta» (così si legge nel comunicato stampa di presentazione) che si nasconde dietro la Fiat 500L che esordirà sul mercato a breve, e quali sono le differenze fondamentali che, senza nulla togliere alla validitità del nuovo modello, lo caratterizzano rispetto alla Citroën C3 Picasso già in vendita dal 2009. Quanto al mercato, anche in quello italiano che va peggio di altri e che ha appunto chiuso il primo semestre 2012 con le immatricolazioni di auto nuove a -19,73% rispetto allo stesso perodo del 2011 (e un giugno con un disastroso -24,4%), non tutti piangono come Fiat (-20,56%), Lancia (-10,63%, ma grazie anche al contributo di Chrysler) e Alfa Romeo (-31,32%): nei primi sei mesi, Kia ha immatricolato il 47,25% di auto in più, Chevrolet il 12,70%, Dacia il 14,76%, Hyundai il 6,45% e Land Rover il 35,54%. Numeri che dimostrano che anche in tempi di crisi nerissima, chi dispone di prodotti appetibili non solo resiste, ma riesce anche a conquistare maggiori consensi. Ovviamente, anche a danno di chi i prodotti giusti non li ha. Insomma appare intimamente contradditorio inneggiare al mercato per chiudere le fabbriche e ripudiare quello stesso mercato quando è ora di mostrare di sapere vendere le macchine.
D’altra parte è noto che nel settore dell’auto per competere gli investimenti siano tutto, investimenti nel prodotto, nel sistema industriale e in ricerca e sviluppo. In un’intervista rilasciata a febbraio a Massimo Mucchetti del Corriere. Marchionne dice che «Fiat spende in ricerca e sviluppo il 5,3% dei ricavi, la media dei produttori generalisti europei è del 5,7%». I numeri sono veri ma il numero uno di Fiat fa il gioco delle tre carte. Infatti i ricavi di Fiat nel 2011 sono stati 59,6 miliardi e quelli di Volkswagen 159,3. Facendo due conti in base alle parole di Marchionne risulterebbe un investimento in R&D (cioè in ricerca e sviluppo) di 3,16 miliardi mentre, estrappolando il dato sulla spesa di Volkswagen dall’ultimo rapporto della Commissione Europea sulla spesa delle aziende in questo settore, risulta che Volkswagen nel 2011 ha speso invece 6,26 miliardi. Proprio nel rapporto di Bruxelles (qui sotto trovate la tabella) si vede che Wolfsburg scivola dal quarto al sesto posto al mondo (la prima è la casa farmaceutica svizzera Roche) preceduta, fra le case automobiistiche, solo da Toyota (al 4°posto). Daimler è 13esima, Honda è 17 esima, Ford 23esima, Nissan 25esima, Bmw 38esima, Peugeot 46esima (era 39esima). E Fiat? Nelle prime 50 posizioni è non pervenuta.
La tabella con le spese in R&D nel 2011 tratta dal report «The 2011 Eu Industrial R&D Investment Scoreboard, pagina 23.
(ha collaborato Alessio Mazzucco)