Ecco perché questi tagli faranno bene alle nostre università

Ecco perché questi tagli faranno bene alle nostre università

NoisefromAmerica ha sempre sostenuto la necessità di tagliare la spesa pubblica e quindi non può che accogliere con favore il recente decreto. Ma, si sa, il diavolo è sempre nei dettagli e quindi è opportuna un’analisi più approfondita. Questo post si occupa dei tagli all’università e alla ricerca

Premetto. Mi baso sui resoconti di giornali che possono essere, come spesso succede, errati o incompleti. Il testo completo non è ad oggi (8 luglio) disponibile. Inoltre questi decreti sono spesso cambiati o addirittura stravolti in sede di approvazione. In ogni caso, assumo che le anticipazioni siano corrette e che il decreto sia approvato nel testo attuale. A quanto pare, il decreto:

i) taglia i finanziamenti ad alcuni enti di ricerca, compreso l’Infn, che si occupa di fisica delle particelle, un campo improvvisamente popolare grazie alla recente scoperta del bosone di Higgs. Non sorprendente, essendo un programma di tagli di spesa. Non sorprende neppure la reazione negativa degli interessati. Chi scrive non è in grado di valutare quanto questi tagli mettano effettivamente in pericolo la ricerca. Le percentuali non sembrano enormi (al massimo il 10%) ma ovviamente molto dipende dall’efficienza degli enti e dalla presenza di sprechi. In genere, comunque, meglio finanziare la ricerca attraverso bandi competitivi fra enti diversi, valutati da specialisti piuttosto che allocare i soldi agli enti con decreto ministeriale. Per esempio, sicuramente la Stazione di Biologia Marina di Napoli ha una lunghissima tradizione, ma chi ci garantisce che non ci sia a Sassari un professore di Biologia Marina con idee più innovative e quindi più meritevole di essere finanziato?

ii) stabilisce che le università possano usare per nuove assunzioni solo una parte del calo delle spese per personale nei prossimi anni (il 20% nel 2014, poi il 50% nel 2015). Questa disposizione susciterà sicuramente molte polemiche fra i professori, perché riduce drasticamente le possibilità di carriera. Per valutarla, occorre pero’ ricordare che il costo medio dei professori che vanno in pensione è molto più alto di quello dei nuovi assunti. Un calcolo preciso è impossibile, in quanto dipende dal grado accademico e dall’anzianità di servizio dei pensionandi e dal costo nei nuovi ricercatori a tempo determinato ex legge Gelmini, che viene stabilito dalle singole università. Ipotizzando che un pensionando costi il doppio di un nuovo ricercatore, si potrebbero assumere, nel 2014, due nuovi docenti per ogni cinque professori che vanno in pensione. Sicuramente sono pochi. Ma non dovrebbe essere un disastro epocale dal punto di vista della didattica, dato che il numero di professori in rapporto agli studenti, pur in rapido calo, è ancora storicamente elevato. Poi nel 2015, sotto le stesse ipotesi, la sostituzione potra’ essere fatta in parita’: un nuovo docente per ogni pensionato. Certo, le università dovranno fare alcune riorganizzazioni, i professori dovranno insegnare di più e si dovrà forse chiudere qualche corso. Il problema è più grave per i “giovani” (spesso non più tali anagraficamente) precari che aspettano un posto fisso o almeno la possibilità di concorrere ad un posto quasi-fisso. Molti di loro saranno delusi. Quanti in concreto dipenderà dalle scelte degli atenei: useranno i pochi soldi disponibili per nuove assunzioni o per promuovere ricercatori ed associati già in servizio? Il comportamento sarà un test interessante per capire quanto l’ostentata preoccupazione per la triste sorte delle giovani generazioni sia sincera. Inoltre, il decreto non toglie alle università soldi: i risparmi sul personale oltre il 20% (poi 50%) potranno essere usati per altri scopi – borse di studio, acquisto di attrezzature di ricerca, missioni di ricerca, edilizia etc. Questo è indubbiamente positivo. Infatti queste spese sono indispensabili per la ricerca e finora sono state sacrificate per aumentare il più possibile il numero di professori e far fare loro carriera.

iii) infine il decreto aumenta in maniera surrettizia le tasse universitarie. La legislazione attuale stabilisce infatti che le tasse pagate dagli studenti non possano superare il 20% delle entrate dell’università. Il decreto mantiene il limite ma esclude dal calcolo delle tasse quelle pagate dagli studenti fuoricorso e ritocca (in aumento) il denominatore includendo altre fonti di reddito. In pratica, autorizza le università a far pagare i fuoricorso molto di più. Inoltre, destina (parte) delle somme ottenute a borse di studio. La misura sembra totalmente condivisibile. Il finanziamento pubblico dell’università è profondamente ingiusto: le tasse, pagate dai lavoratori dipendenti a reddito medio, pagano gli studi dei figli degli evasori fiscali e dei ricchi. Il provvedimento permette di far pagare una parte maggiore del costo agli utenti effettivi, ed allo stesso tempo di sussidiare gli studenti, sperabilmente bravi ma poveri. Starà poi alle università trovare il modo di evitare che gli evasori fiscali siano beneficiati. E’ infine molto condivisibile l’idea di far pagare più i fuoricorso, un problema apparentemente irresolubile dell’università italiana. In realtà, sarebbe facile risolverlo proibendo il fuori corso ed introducendo un esame finale, ma questa soluzione impone una riorganizzazione della didattica che sembra fuori della portata dei legislatori italiani. Se fuoricorso devono essere, perlomeno che siano fortemente penalizzati.

Nessuno è contento dei tagli al proprio settore e quindi, come professori universitari, non possiamo certo essere contenti di tagli all’università. Nel caso specifico, però, ci sembra che i tagli siano tutto sommato ben congegnati e che introducano alcuni principi che potrebbero essere positivi in futuro. 

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