«Sono sulle Pagine Gialle, e tu?», recita la scritta a caratteri cubitali accanto al fumettone di un ragazzo sorridente con un berretto da baseball. Location: la guida telefonica di Etecsa (Empresa de Telecomunicaciones de Cuba), di proprietà dello Stato. Il monopolista statale da qualche settimana invita i cuentapropistas cubani – letteralmente, lavoratori in proprio – a reclamizzare le proprie attività al costo di dieci cuc (i pesos convertibili che corrispondono ad altrettanti dollari). Cifre più alte per pubblicità più articolate.
Inimmaginabile fino a non molto tempo fa, l’iniziativa è il passo più recente nel cammino verso la libera iniziativa che il governo dell’isola ha intrapreso alla fine del 2010 e su cui i “cubanologi” sono divisi: secondo alcuni è la strada senza ritorno verso il capitalismo, per altri è l’inizio di una sorta di via cinese e c’è chi sostiene che si tratti di una mezza farsa, di un maquillage leggero per tamponare le débâcle dell’economia di Stato fino alla morte dei fratelli Castro. «Bisogna cancellare per sempre l’idea che Cuba sia l’unico Paese al mondo dove si può vivere senza lavorare», ha tuonato il più giovane di loro nell’agosto del 2010, prima di annunciare il poderoso piano di riforme che dava il via a una modesta, ma a suo modo significativa liberalizzazione dell’iniziativa privata, e il ministro dell’Economia Marino Murillo ha subito puntualizzato che si sarebbero mantenute sia la proprietà statale sia la pianificazione centralizzata. «In realtà», ha dichiarato. «Non si può parlare di riforme. Si tratta di un’attualizzazione del modello cubano, in cui la priorità è delle categorie economiche del socialismo e non del mercato».
Il fatto è che la traballante economia di Stato imponeva una drastica riduzione dei lavoratori in esubero: un milione ottocentomila entro il 2015 di cui 500.000 entro il 2011. Da lì, la decisione di invitare i cubani a mettersi in proprio per compensare i tagli: il mega-pacchetto di misure permette nuovi lavori autonomi, concede più licenze in quelli già previsti e affida la gestione di alcuni uffici improduttivi dello Stato a cooperative di privati. Ai proprietari di case si permette di affittare tutta l’abitazione e non solo una o più stanze e ai piccoli imprenditori di assumere dipendenti, a patto di pagare tasse extra.«Misure », ha dichiarato Obama, a cui di Cuba non importerebbe nulla, non fosse per i cubani di Miami. Da parecchio l’isola ha smesso di avere un valore strategico per il governo Usa e si è trasformato in un semplice problema di politica interna: i cubani di Miami sono contrari alla revoca dell’embargo e il loro voto vale bene una brutta figura annuale all’Assemblea Generale dell’Onu.
In ogni caso, in pochi mesi i piccoli imprenditori sono passati da 144.000 a 330.000, disseminati tra le 178 attività permesse che rappresentano un vero sfoggio di fantasia caraibica. Accanto a quelle più tradizionali di gestore di bed & breakfast e ristoranti in casa (le paladares), tassisti e autisti di carrozzine, spiccano infatti lavori come il foderatore di bottoni, lo sbucciatore di frutta e un ampio spiegamento di figuranti: dal dandy alle comparse dei duetti tradizionali “Amor” e “Benny Moré”. Anziane signore nei costumi tipici e con il sigaro in bocca si fanno fotografare con i turisti (a pagamento) nei centri storici delle città in cui si muovono, più defilati, cuentapropistas di minor peso come i riempitori di accendini.
«In qualche modo, pur tra goffaggini e contraddizioni, ripensamenti e molti errori, il cammino va avanti», spiega un economista che preferisce restare anonimo. Prima c’è stata l’apertura al credito, poi l’aumento del numero dei posti a sedere permessi nelle paladares, l’autorizzazione ai privati di fornire servizi allo Stato e infine quella storia delle Pagine Gialle. Negli ultimi mesi sono fioriti i corsi di formazione: si insegnano ai neoimprenditori le regole del management e la contabilità, e come rendere competitive le aziende. Tra i più seguiti il corso della Compagnia di Gesù che per tre mesi, e fino all’aprile scorso, ha impartito lezioni di marketing ed economia (l’Arcidiocesi aveva realizzato corsi simili qualche mese prima).
È lì (anche) che i nuovi imprenditori imparano come pagare le tasse, per molti il punto debole della riforma: fino al 50 per cento sulle entrate, e inoltre il dieci per cento sulle vendite e i contributi. «Sono altissime, la cosa assurda è che più impiegati si contrattano e più imposte si devono pagare e questo è illogico, dato che l’obiettivo delle riforme è quello di creare lavoro», spiega a Linkiesta Carmelo Mesa-Lago, professore emerito dell’Università di Pittsburgh e autore di molti saggi sull’isola tra cui Cuba en la era de Raúl Castro, di prossima pubblicazione negli Stati Uniti e in Spagna. «La riforma è buona ma ha ancora troppi vincoli, Raúl deve osare di più. Per esempio, per colpa delle tasse molti cubani non si azzardono a mettersi in proprio ed è per questo che il governo non riesce a raggiungere gli obiettivi nel numero di persone da licenziare».
Un altro punto debole è la mancanza di un mercato all’ingrosso. Ai cuentapropistas tocca rivolgersi a quello dello Stato, molto carente, e l’unica alternativa è il mercato nero. La maggior parte dei lavoratori in proprio si lamenta che l’approvvigionamento è spesso così difficile da invalidare i loro sforzi, e chiedono la creazione di un mercato efficiente. Benché l’atmosfera a Cuba sia leggermente euforica, e si respiri un’aria di ottimismo generalizzato, non tutti sono entusiasti. C’è chi non si fida, chi si lamenta delle imposte e chi ha paura che il governo si rimangi tutto come aveva fatto durante il Periodo Especial, la pesantissima crisi economica che si era abbattuta sull’isola dopo la caduta del Muro. Fidel aveva autorizzato una serie di attività che venivano già svolte sottobanco, ma aveva poi sospeso la concessione di licenze in molte categorie, tanto che il numero dei cuentapropistas era calato da 210.000 del 1996 a 144.000 di qualche anno dopo. «Questa volta non succederà lo stesso», assicura Raúl (non Castro), idraulico e “buon rivoluzionario”. «Sarebbe assurdo tornare a una economia che non funzionava e non ci garantiva». Non si tratta, oggi, di una dichiarazione pericolosa. Che il modello economico cubano sia discutibile è ormai una verità assimilata, che anche gli economisti ortodossi ammettono.«Il governo si è reso conto che il funzionamento dell’economia socialista non risolveva, per come era strutturato, necessità basilari della popolazione, nonostante gli importanti risultati sociali», spiega Omar Everleny Pérez Villanueva, direttore del Ceec (Centro de Estudios de la Economia Cubana). «Il fatto che venga riconosciuta l’importanza del settore privato e cooperativo è importantissimo: si prevede infatti che nel 2015 l’impiego non statale rappresenterà il 45 per cento di quello complessivo nell’isola».
Perfino Fidel ha ammesso, con una battuta di qualche anno fa, che quel modello non funzionava più, mentre il fratello dicono fosse da un po’ che lo pensava, ma queste, ormai, sono vecchie storie.
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