Presentazione
Il CNB ha avvertito l’esigenza di affrontare in generale il tema dell’obiezione di coscienza in bioetica, già sollecitato in più occasioni per questioni particolari, e ha costituito un gruppo di lavoro coordinato dal Prof. Andrea Nicolussi, al quale hanno preso parte i Proff. Salvatore Amato, Luisella Battaglia, Adriano Bompiani, Stefano Canestrari, Roberto Colombo, Francesco D’Agostino, Antonio Da Re, Lorenzo d’Avack, Emma Fattorini, Carlo Flamigni, Silvio Garattini, Marianna Gensabella, Assuntina Morresi, Demetrio Neri, Laura Palazzani, Vittorio Possenti, Giancarlo Umani Ronchi e Monica Toraldo di Francia.
Il documento esamina gli aspetti morali dell’obiezione di coscienza e si sofferma sul versante giuridico, al quale l’obiettore in definitiva si rivolge chiedendo di poter non adempiere a comandi legali contrari alla propria coscienza. Le nuove frontiere della bioetica propongono sempre più spesso una nuova sfida allo Stato costituzionale democratico e pluralista. Da una parte, si tratta di evitare di imporre obblighi contrari alla coscienza strumentalizzando chi esercita una professione. Spesso si trascura che il riconoscimento di diritti implica la previsione di obblighi e quindi la pretesa di comportamenti che possono anche non essere compatibili con la deontologia professionale.
Emerge, insomma, un problema più ampio di tutela dell’autonomia professionale sia dal punto di vista della libertà della comunità di professionisti di autoriflettere e determinare le finalità specifiche della professione esercitata, sia dal punto di vista della libertà del singolo professionista nei confronti di una eventuale eterodeterminazione legale riguardo alle finalità del proprio operare. L’esercizio di una professione comporta non soltanto una discrezionalità tecnica, ma anche una deontologia.
D’altra parte, la coscienza del singolo non si esaurisce nella dimensione deontologica, riguardando la persona come tale e non solo come professionista. Il diritto all’odc si presenta perciò in primo luogo come diritto della persona che uno stato costituzionalizzato e sensibile alla libertà di coscienza non può non tutelare giuridicamente. Tuttavia, proprio in quanto situazione tutelata giuridicamente, tale diritto deve integrarsi nell’ordinamento come avviene del resto per tutti i diritti, e inoltre perché il potere di sottrarsi a un comando legale dev’essere giustificato e non mortificare i principi di legalità e di certezza indispensabili all’esperienza del diritto.
Anzitutto l’obiezione di coscienza non può esaurirsi in un arbitrario rifiuto di obbedire, ma – salve le ragioni individuali – deve presentare anche una rilevanza intersoggettiva che in bioetica si può cogliere in riferimenti ai diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti a fondamento del diritto costituzionalizzato. In quest’ottica l’odc non solo tutela la libertà di coscienza individuale, ma rappresenta una istituzione democratica, perché impedisce che, riguardo a materie molto controverse e inerenti ai valori fondamentali, una maggioranza ne “requisisca” persino la problematicità rifiutando il dubbio. Tuttavia il riconoscimento dell’odc non implica una sorta di potere di boicottaggio della legge, la cui vigenza deve essere garantita così come garantito dev’essere l’esercizio dei diritti da essa previsti. È in questa prospettiva che si può configurare un’odc giuridicamente sostenibile per la bioetica.
Per questi principali motivi il parere, col voto favorevole di tutti e un solo astenuto, conclude che “l’obiezione di coscienza in bioetica è un diritto costituzionalmente fondato (con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo), costituisce un’istituzione democratica, in quanto preserva il carattere problematico delle questioni inerenti alla tutela dei diritti fondamentali senza
vincolarle in modo assoluto al potere delle maggioranze, e va esercitata in
modo sostenibile”. Perciò la tutela giuridica dell’obiezione di coscienza non deve limitare né rendere più gravoso l’esercizio di diritti riconosciuti per legge né indebolire i vincoli di solidarietà derivanti dalla comune appartenenza al corpo sociale.
Da queste conclusioni, derivano anche alcune raccomandazioni: nella tutela dell’obiezione di coscienza, che discende dal suo essere costituzionalmente fondata, si devono prevedere misure adeguate a garantire l’erogazione dei servizi, con attenzione a non discriminare né gli obiettori né i non obiettori, e quindi un’organizzazione delle mansioni e del reclutamento che possa equilibrare, sulla base dei dati disponibili, obiettori e non.
Il parere si occupa inoltre delle principali questioni di dettaglio inerenti alla tematica dell’odc in bioetica, come l’esigenza di controlli di coerenza, la distinzione tra obblighi di fare e di non fare e la difficile questione relativa ai criteri di determinazione dei soggetti che possono far valere l’odc.
Il documento è stato redatto dai Proff. Andrea Nicolussi e Antonio Da Re, rispettivamente con riguardo alla prospettiva giuridica e a quella morale, avvalendosi di ampi contributi scritti del Prof. Demetrio Neri, nonché dei Proff. Salvatore Amato, Stefano Canestrari, Marianna Gensabella, Assuntina Morresi e Laura Palazzani. Il parere è stato approvato definitivamente in sede plenaria dai presenti (Proff. Salvatore Amato, Luisella Battaglia, Adriano Bompiani, Stefano Canestrari, Francesco D’Agostino, Antonio Da Re, Lorenzo d’Avack,
Marialuisa di Pietro, Romano Forleo, Silvio Garattini, Marianna Gensabella, Assuntina Morresi, Demetrio Neri, Andrea Nicolussi, Vittorio Possenti, Monica Toraldo di Francia, Giancarlo Umani Ronchi, Grazia Zuffa) col solo voto contrario del Prof. Carlo Flamigni. Assenti alla plenaria, hanno espresso voto favorevole i Proff. Riccardo Di Segni, Silvio Garattini, Rodolfo Proietti.
Il Presidente
Prof. Francesco Paolo Casavola
1. Ragioni del parere e definizione dell’odc presa in considerazione
Il CNB si è occupato in alcuni pareri dell’obiezione di coscienza relativamente a questioni bioetiche e biogiuridiche particolari. Questo parere mira invece ad affrontare il tema da un punto di vista bioetico e biogiurico più generale rendendo in considerazione l’obiezione di coscienza (odc) come pretesa del singolo di essere esonerato da un obbligo giuridico, perché egli ritiene che tale obbligo sia in contrasto con un comando proveniente dalla propria coscienza e sia inoltre lesivo di un diritto fondamentale rilevante in ambito bioetico e biogiuridico.
In questo senso l’odc va intesa secondo un’accezione più specifica rispetto a un generico atteggiamento di dissenso intenzionale nei confronti del comando dell’autorità, che si esprime nel rifiuto di obbedire a un precetto dell’ordinamento giuridico ritenuto in contrasto con obblighi derivanti dalle proprie convinzioni morali. Inoltre, essa si presenta come distinta sia dal diritto di resistenza, inteso quale negazione della validità della legge dello Stato e della legittimità dell’autorità statale, sia dalla disobbedienza civile che è tendenzialmente un fenomeno collettivo con lo scopo di evidenziare l’ingiustizia di una legge per indurre il legislatore a riformarla.
L’obiettore non mette in discussione la validità della legge in quanto tale o dell’ordinamento giuridico nel suo complesso e neppure la legittimità dell’autorità statale, ma chiede di poter non obbedire alla legge per poter agire in modo coerente rispetto ai propri valori morali. Di qui il carattere personale dell’odc, frutto del contrasto tra comando legale e obbligo morale, carattere che non è riscontrabile in quella che è stata definita obiezione di struttura (o istituzionale) (cfr. Risoluzione 1763/2010 della Assemblea del Parlamento del Consiglio d’Europa), della quale perciò questo parere non si occupa.
In sintesi, punti minimi e fondamentali che caratterizzano l’odc in esame sono: 1) il rifiuto di obbedire a una legge rilevante in campo bioetico 2) il fatto che questo rifiuto è dovuto alla volontà di non violare le proprie convinzioni morali o principi religiosi 3) il desiderio di testimoniare con il proprio comportamento l’adesione ad una certa visione del mondo 4) la richiesta (rivolta all’ordinamento giuridico) di legittimare il comportamento di disobbedienza in modo da non essere sottoposti a sanzione e quindi la necessità di ancorare l’odc a valori costituzionali che la rendano compatibile con l’obbligo di fedeltà alla Repubblica e di osservarne la legge e la Costituzione (art. 54 Cost.).
In questa prospettiva, diversa da quella che colloca l’odc in un’ottica dualistica di contrapposizione tra un diritto formale (ad esempio la legge inquanto tale) e un diritto giusto dal quale l’obiettore trae le ragioni della sua obiezione, l’odc perde il connotato puramente negativo di rifiuto della legge e dell’autorità: da ‘contra legem’ tende a divenire ‘secundum legem’, perché cerca e trova proprio nel diritto lo spazio per esprimere una visione morale o religiosa individuale ma non incomunicabile. Quando l’odc viene prevista e regolata dalla legge può essere vista come possibile oggetto di un’opzione legalmente attribuita a chi trovandosi in conflitto tra un obbligo previsto dalla stessa legge e un obbligo della sua coscienza, preferisca optare per comportamenti alternativi egualmente legittimi, secondo limiti e modalità adeguate affinché lo spazio di scelta individuale sia compatibile con l’ordinato svolgimento della vita sociale.
Rimane, tuttavia, il simbolo di un contrasto non sanato con singole previsioni legislative, pur nella volontà di restare all’interno dei dettami dell’ordinamento giuridico. Questa volontà, comunque, permette di distinguere l’odc dalla disubbidienza civile, che ha un netto carattere di rivolta generalizzata. Meno netta è invece la distinzione dall’opzione (o clausola) di coscienza che intende preservare i principi di “scienza e coscienza” del singolo professionista in specifiche e particolari situazioni, come sottolinea ad esempio l’art. 22 del codice di deontologia medica. Rispetto a quest’ultima, l’odc riconosciuta dalla legge ha un carattere più generale e astratto, in quanto segue a una dichiarazione del soggetto di volersi astenere per il futuro da certe prestazioni senza attendere di trovarsi attualmente nella particolare situazione di conflitto di coscienza. D’altra parte, come il CNB ha già rilevato nel suo Parere su Le vaccinazioni (22 settembre 1995) non è obiezione di coscienza quella di chi non fa valere un obbligo della coscienza, ma una diversa valutazione scientifica rispetto a quella posta a fondamento di un precetto legale, come ad esempio sostenendo l’idea di una inutilità delle vaccinazioni.
Ora, la questione dell’obiezione di coscienza, specialmente quando a farla valere è un professionista, al quale la legge impone dei doveri che possono confliggere con obblighi derivanti dalla sua coscienza a tutela di diritti fondamentali, si propone in misura crescente per via della problematicità e della delicatezza dei temi bioetici e biogiuridici che coinvolgono in modo nuovo e spesso controverso diritti fondamentali dell’uomo. Per quanto di per sé l’odc possa essere invocata in molti settori della vita sociale, è soprattutto nell’ambito
sanitario che si registrano con maggiore frequenza questioni che ne sollecitano un riconoscimento o quantomeno un dibattito su di essa e sulle sue implicazioni. Parallelamente, il diffondersi dell’istanza di autodeterminazione favorisce il conflitto tra diverse libertà di coscienza nella misura in cui l’attuazione dell’autonomia dell’uno esige la collaborazione di altri, specialmente di chi esercita un’attività professionale connotata da proprie specifiche finalità.
Di qui il difficile equilibrio tra la tutela della libertà dell’individuo, il quale si rivolge a qualcuno che per competenza ed esperienza è in grado di fornire una determinata attività professionale, e la tutela della libertà di chi presta tale attività e decide di seguire la propria coscienza anche quando non collimi con le richieste che gli sono state avanzate; di qui inoltre l’esigenza di tutelare l’autonomia della comunità dei professionisti di formare e preservare il loro statuto professionale non solo quando è in gioco l’appropriatezza tecnica dell’atto professionale richiesto, ma anche quando sono messi in discussione i fini in senso assiologico della stessa attività professionale. Ma il bisogno di assicurare una zona di rispetto della coscienza dei singoli emerge anche in funzione del principio pluralista che caratterizza le democrazie contemporanee, nonché del principio di laicità inteso come non interferenza dello Stato nei confronti della morale individuale.
Addirittura vi è chi attribuisce all’obiezione di coscienza «la natura di tecnica della società pluralista» sottolineando altresì come «la mancanza di valori condivisi non possa essere sostituita da “un’etica dei più”, imposta attraverso lo strumento legislativo, dunque a mezzo della più classica delle procedure maggioritarie». La questione dell’obiezione di coscienza, in altre parole, interpella la stessa concezione liberale, che alimenta l’idea dell’autodeterminazione, richiamando tale concezione a rimanere fedele al primato della persona nei confronti dell’organizzazione statuale che può essere minacciato anche dalla pretesa di attuazione assoluta del volere della maggioranza.
D’altra parte, non si può negare la grave problematicità della stessa
obiezione di coscienza imputata, non sempre a torto, di poter essere piegata a strumento di sabotaggio nelle mani di minoranze fortemente organizzate oppure oggetto di abuso opportunistico da parte di singoli. Inoltre, l’odc assume una rilevanza pubblica nella misura in cui si presenta come possibile causa di giustificazione socialmente rilevante, non puramente interiore, della mancata osservanza di un comando, e implichi la comunicabilità intersoggettiva delle ragioni coscienziali che si oppongono all’adempimento del comando. L’odc pone insomma anche il tema dei limiti interni e esterni e delle modalità di esercizio compatibili con il dovere di lealtà verso la comunità sociale di appartenenza.
2. La prospettiva morale
Per comprendere adeguatamente il significato dell’obiezione di coscienza, conviene preliminarmente soffermarsi sul valore e sul significato della coscienza, che appunto obietta, si oppone a un ordine o a una legge vigente in nome di un riferimento morale o religioso considerato come superiore e obbligante in senso stretto. L’etimologia del termine (cum-scientia) può in tal senso aiutare a cogliere alcuni aspetti rilevanti. Innanzitutto la coscienza ha a che vedere con un conoscere, un sapere (scientia); il momento della conoscenza e ancor prima della consapevolezza personale, ben esemplificata da espressioni quali “essere coscienti di” o “avere coscienza di”, qualifica l’esperienza della coscienza, anche quando questa si esplichi, come nel caso dell’odc, in senso strettamente morale. L’elemento conoscitivo è quindi agganciato alla dimensione prettamente morale. Tale legame risulta essere fondante: l’appello a un’istanza etica ulteriore a rigore non si basa su una mera opinione soggettiva o su un qualche parere estemporaneo.
Il giudizio morale sulla bontà o meno dell’atto e la conseguente attivazione della componente volitiva del soggetto che poi sfocia nella scelta poggiano su un sapere, che tra l’altro dovrebbe essere riconoscibile e comunicabile (si parla di una cumscientia). L’originario e costituivo carattere relazionale e interpersonale della coscienza mostra come questa non sia interpretabile in termini di chiusura e di autoreferenzialità. Quando si dia tale sorta di autosufficienza, ne risente inevitabilmente il significato dell’odc, spesso declinata in termini puramente soggettivistici, se non, nei casi estremi, di svalutazione e persino di rifiuto del vincolo di appartenenza alla comunità giuridicamente regolata. Tale aspetto, tuttavia, non mette in discussione il primato del punto di vista morale-soggettivo nei confronti delle imposizioni della collettività, quando queste vogliano giustificarsi soltanto attraverso la pretesa di sostituirsi al singolo stesso nella definizione dei suoi interessi e valori; anche se, va precisato, non è questa propriamente la normatività con riferimento alla quale si pone il problema dell’obiezione di coscienza, che invece riguarda comandi giustificati da un interesse generale o dalla esigenza di tutela di altre persone diverse dall’obiettore.
Più in generale, un’interpretazione semplicistica e al tempo stesso deformante dell’odc sarebbe quella di chi intenzionalmente volesse sottrarsi al rispetto generale del principio di legalità e, al tempo stesso, pretendesse che la propria scelta, pur giustificata moralmente, non fosse per nessun motivo riconducibile alla statuizione del diritto; in tal caso saremmo di fronte a forme di disobbedienza civile o di resistenza al potere che, come s’è accennato, non vengono trattate in questa sede. Ugualmente deformanti risultano essere applicazioni di tipo opportunistico che sviliscono il significato proprio dell’odc. Come si vedrà, la sfida sta nel riuscire a coniugare il rispetto della libertà personale, specie quando questa faccia appello a convincimenti intimi e profondi, avvertiti come ineludibili, con il rispetto dei diritti altrui e dei vincoli di solidarietà derivanti dalla comune appartenenza al corpo sociale.
In tal senso il rifiuto di obbedire, per ragioni di coscienza, a una norma particolare richiede contestualmente un’adesione di fondo all’ordinamento giuridico nel suo insieme, e in particolare a quei principi e valori, costituzionalmente stabiliti, che sembrano porsi felicemente come possibile trait d’union tra le intime convinzioni personali, di carattere morale, e le norme giuridiche positive: in altri termini, l’odc come è intesa in questo documento manifesta un conflitto tra possibili differenti interpretazioni di valori costituzionali. Da quanto detto emerge come l’odc si qualifichi in senso propriamente morale. Essa rinvia a una prospettiva ulteriore, rispetto a quella strettamente legale, della quale mette in luce la limitatezza e la rigidità. Il richiamare la fecondità di una tale prospettiva morale non esclude la possibile formalizzazione giuridica.
Anzi, la complessità delle molte questioni attinenti all’odc deriva dal fatto che questa è un fenomeno originariamente morale, che tuttavia ha necessità di passare, per così dire, al vaglio del diritto. La salvaguardia di uno spazio di comunicazione effettiva, benché presumibilmente spesso problematica e difficoltosa, tra il morale e giuridico è il presupposto per un riconoscimento appropriato dell’odc; e tale spazio di comunicazione trova una sua chiara esemplificazione nei riferimenti valoriali e di principio della Carta Costituzionale.
3. Obiezione di coscienza e diritto costituzionalizzato
Sul versante giuridico la questione contemporanea dell’obiezione di coscienza segna e intercetta una profonda revisione del concetto stesso di diritto rispetto a quello diffuso nella cultura giuridica formatasi nell’Europa continentale ottocentesca e predominante sino a prima della seconda metà del Novecento. Formalmente tale evoluzione si è manifestata in quelle che potrebbero essere definite le Costituzioni del dopo Auschwitz (come in Italia e Germania), le quali nel secondo Novecento riorientano il diritto riconoscendo la persona umana quale baricentro dell’ordinamento e quindi come scopo di esso.
Si supera così una concezione del diritto come pura risultante del potere di imporre le leggi: esso non è più considerato come un semplice prodotto del potere di statuizione, ma trova la sua giustificazione più propria in alcuni valori fondamentali riconosciuti nelle Costituzioni (v., ad esempio, artt. 2 e 3 Cost. italiana). In questo senso il diritto, senza perdere la propria autonomia rispetto agli altri punti di vista (morale, religioso, economico, tecnico, ecc.), dismette la
pretesa di autoreferenzialità e autosufficienza accogliendo un principio di inclusione e di confronto sui valori fondamentali secondo ragionevolezza quale temperamento di una legalità intesa in modo rigido, astratto e senza limiti.
Del resto, un diritto che si vuole secolarizzato non può accogliere fondamentalismi di nessun genere, ma deve aprirsi al bilanciamento tra valori in collisione (contrapposizione) reale (non apparente) senza cadere nel paradosso di surrogare il riferimento all’assoluto con l’assolutezza del punto di vista della maggioranza. Di qui l’idea che la Costituzione comporti un’apertura, entro certi limiti, all’obiezione di coscienza quale effetto del bilanciamento tra il valore posto a fondamento del comando legale oggetto dell’odc, da un lato, e i principi della libertà di coscienza, del pluralismo e della laicità, dall’altro. Addirittura la Costituzione tedesca si spinge fino a prevedere espressamente l’odc al servizio militare, la quale costituisce un’ipotesi estrema, in quanto inerisce funzionalmente a un dovere, la difesa della patria, che ad esempio la nostra Costituzione qualifica come «sacro dovere del cittadino» prevedendo espressamente anche l’obbligo del servizio militare (art. 52 Cost.).
Pertanto se per l’odc al servizio militare una previsione legislativa poteva ritenersi necessaria, assai meno problematica appare l’odc in ambiti, come quello sanitario, in cui non si può parlare puramente e semplicemente di carattere derogatorio dell’odc a un principio costituzionale. Là dove infatti si tratta di questioni che ineriscono a valori costituzionali supremi come ad esempio la vita umana (cfr. Corte cost. n. 27/1975 e 35/1987), l’odc invocata a difesa di una determinata interpretazione di tali valori non può dirsi schiettamente derogatoria e la sua costituzionalità risulta fondata a fortiori rispetto ai casi in cui risulta rilevante nel contesto militare. In questi ambiti controversi l’odc assume la funzione di istituzione democratica impedendo che le maggioranze parlamentari o altri organi dello stato neghino in modo autoritario la problematicità relativa ai confini della tutela dei diritti inviolabili. Coerentemente perciò la legge 194/78 sull’interruzione volontaria della gravidanza e la legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita nel prevedere forme di intervento sulla vita umana prenatale hanno salvaguardato la possibilità di un’odc da parte dei soggetti professionalmente coinvolti.
E poi sulla scorta della riconosciuta esigenza di tutela degli animali la legge 413/1993 ha introdotto anche l’odc alla sperimentazione animale, oltre quindi l’ambito della tutela della vita umana. Leggi in ambiti molto controversi di rilievo costituzionale e odc per la salvaguardia, oltre che della libertà di coscienza, di una tensione verso i valori fondamentali. Da questo confronto emerge altresì che il discorso sull’odc non può essere ridotto alla semplice rivendicazione della libertà di coscienza. La valutazione della libertà di coscienza e di religione come valore fondante un ordinamento giuridico pluralista rimane indiscussa, ma la stessa esigenza di bilanciamento tra valori costituzionali che soggiace al diritto all’odc impedisce di configurarlo come un diritto assoluto e in pari tempo orienta verso una considerazione differenziata delle ragioni di coscienza che possono essere invocate a sostegno dell’obiezione stessa. Una differenziazione sembra necessaria infatti in funzione del diverso peso costituzionale della ragione addotta a sostegno dell’odc.
Inoltre, una differenziazione risulta necessaria anche rispetto alla questione dell’esigenza o meno di una disciplina legale dell’odc e delle sue modalità d’esercizio, a seconda delle ragioni di coscienza invocate dall’obiettore e dal loro corrispondere o no ai valori costituzionali fondamentali. Solo in tal modo, del resto, è possibile sventare il pericolo di un’odc non regolata dalla legge e indiscriminata, così come, d’altra parte, l’iniquità di un’odc costituzionalmente fondata, ma rimessa esclusivamente al volere di quella stessa maggioranza che ha posto il comando legale contro cui l’odc potrebbe essere invocata.
In questo modo l’ordinamento si ripiegherebbe su se stesso in senso autoritario, riducendo l’odc a una concessione della maggioranza anche quando l’obiettore fa valere una ragione che egli presenta come ampliamento di tutela di un valore costituzionale di rango primario. Esso rinnegherebbe, in altre parole, il carattere della sua democraticità come tensione costante verso i valori fondamentali, privandosi proprio nel vissuto di quell’istanza critica che viene fatta valere riguardo alla costituzionalità stessa del diritto. Inoltre, l’odc in tal modo segna una ulteriore presa di distanza dall’idea dello «stato etico» come pretesa di imporre ex lege un solo punto di vista morale. Questo connotato democratico degli ordinamenti giuridici costituzionali è una conquista di civiltà, da riguadagnare continuamente e faticosamente e non facile da conservare, perché ogni maggioranza può subire la tentazione di superare quegli stessi limiti che possono giustificare la formazione democratica della maggioranza. Tale caratteristica dello stato democratico e pluralista contemporaneo è confermata anche dalla previsione dell’odc in numerosi testi internazionali ratificati dall’Italia (art. 18, co. 1, Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; art. 9, co. 1, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; art.
18, co. 1, Patto internazionale sui diritti civili e politici; art. 10, co. 1, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea).
In questa prospettiva, l’odc non dovrebbe essere considerata come una minaccia da parte di una maggioranza consapevole del fondamento democratico della sua stessa esistenza e desiderosa di non chiudere autoritariamente il discorso sulla comprensione e l’ampiezza di tutela dei valori fondamentali. Del resto, gran parte delle questioni bioetiche si agitano proprio in ambiti molto problematici (hard cases o casus perplexi) o zone grigie, nelle quali l’esigenza del diritto di stabilire una certezza in un senso o nell’altro non dovrebbe essere pagata al caro prezzo di imporre ex lege la negazione della stessa problematicità della questione. Perciò almeno nei casi più gravi la contrapposizione «tragica» tra (vincolo di) legalità e coscienza è la stessa costituzione (la cultura, l’ethos costituzionalistico) a volerla scongiurare, nel senso che il diritto costituzionalizzato accetta uno spazio critico nei confronti delle decisioni della maggioranza.
5. Una odc comunicabile e coerente con la formazione autonoma dell’ethos professionale (un principio di non eterodeterminazione legale delle professioni)
Se in ultima analisi il diritto all’odc può essere configurato costituzionalmente come diritto fondamentale della persona (artt. 2, 3, 10, 19, 21 Cost.), tuttavia non ne può essere accolta una concezione puramente soggettivistica, ossia una concezione che escluda di poter considerare il contenuto dell’obiezione e quindi eventualmente condurre un confronto tra i valori a cui l’obiettore si richiama e i valori tutelati dalla legge contro cui è fatta obiezione. Un approccio oggettivistico può valere limitatamente a quando il conflitto concerna esclusivamente diritti o interessi del soggetto stesso; qui si rimane all’interno della prospettiva dell’individuo, la cui coscienza è senz’altro inviolabile.
Se tuttavia si richiede anche il riconoscimento della rilevanza giuridica, allora c’è bisogno di una esteriorizzazione oggettiva, che consideri diritti e interessi di tutti i soggetti a vario titolo implicati e che renda possibile la valutazione di bilanciamento tra valori in collisione. Quale che sia la più adeguata ricostruzione dell’odc, in ogni caso la libertà di coscienza da sola non è sufficiente a fondare l’odc secundum legem ma dev’essere integrata dal valore richiamato dall’obiettore in modo da poter condurre il bilanciamento tra la stessa libertà di coscienza e il valore richiamato dall’obiettore, da una parte, e il
valore tutelato dalla legge, dall’altra.
Quando la legge interviene sulla tutela di un bene fondamentale come la vita o la salute (le principali ipotesi in cui consiste l’odc nella bioetica e nel biodiritto), il valore richiamato dal medico obiettore rappresenta una diversa interpretazione del valore protetto dalla Costituzione; e la tendenza della legislazione a prevedere in simili ipotesi la legittimità dell’odc testimonia, da un lato, il fatto – già in precedenza accennato – che il diritto costituzionalizzato accetta uno spazio critico nei confronti delle decisioni della maggioranza; e, dall’altro, che il riconoscimento dell’odc costituisce l’applicazione di un principio generale, sicché qualora, fuori da questi casi direttamente previsti, sia ancora in gioco un valore costituzionale dello stesso rango, il diritto all’odc sarebbe frutto non di una mera estensione analogica di queste norme, ma direttamente del principio generale di cui sono espressione.
D’altra parte, l’odc assume un peculiare rilievo quando è invocata da un soggetto nell’esercizio di un’attività professionale, come risulta anche dal fatto che in generale essa è puntualmente prevista dai codici deontologici degli ordini professionali. Molto netto al riguardo è il Codice deontologico dei medici italiani (2006) nel quale è principio generale l’assunto che «l’esercizio della medicina è fondato sulla libertà e sull’indipendenza della professione che costituiscono diritto inalienabile del medico» (art. 4) e a norma dell’art. 22 «il medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la propria opera, a meno che questo comportamento non sia di grave e immediato nocumento per la salute della persona assistita e deve fornire al cittadino ogni utile informazione e chiarimento». Inoltre nel giuramento premesso al Codice deontologico si legge che il medico si impegna a rispettare le norme giuridiche solo se esse “non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione”.
Oltre alla dimensione puramente individuale dell’odc, vi è una dimensione professionale in cui la coscienza (cum-scientia) si costituisce all’interno di un ethos professionale definendosi in funzione dei fini caratterizzanti la singola professione. La possibilità dell’obiezione di coscienza mantiene vivo il senso dell’identità professionale impedendo l’eterodeterminazione – per legge o
comunque per imposizione dall’esterno – dello statuto professionale della categoria di professionisti in considerazione. Ciò non significa che i medici non obiettori non si riconoscano nell’ethos professionale o che gli obiettori siano necessariamente più coerenti rispetto ad esso; solo che la possibilità dell’odc, prevista per tutti i medici, garantisce un margine di apprezzamento e quindi la salvaguardia di un ethos professionale che, sebbene non necessariamente cristallizzato né monolitico, non deve per forza coincidere con l’eteroderminazione legale.
Un esempio recente di possibile interferenza legale si è registrato in occasione della introduzione della norma riguardante il reato di clandestinità, quando si è dibattuta l’ipotesi di prevedere l’obbligo di denuncia del clandestino da parte dei medici e da parte degli assistenti sociali. In entrambi i casi gli ordini professionali hanno reagito – trovando però differente ascolto – ritenendo gli atti loro imposti (la denuncia delle persone clandestinamente immigrate) mettere profondamente in discussione le ragioni di fondo della loro stessa professione, oltre che poter risultare lesivi di valori costituzionali. Così anche un’eventuale legge che obbligasse il medico a somministrare una emotrasfusione nonostante il rifiuto del paziente maggiorenne e consapevole (ad esempio testimone di Geova) imporrebbe un’idea eteronoma della professione come attività di esecuzione di prestazioni obbligatorie anche per chi le riceve, anziché di prestazioni offerte a persone libere. L’odc in questo caso permetterebbe al medico di osservare, secondo l’interpretazione conforme alla propria coscienza, il principio del rispetto della persona umana nei trattamenti sanitari (art. 32, co. 2, Cost.) a cui lo stesso codice deontologico sembra essere ispirato.
Un altro esempio di eteronomia potrebbe essere colto in certe interpretazioni rigide della legge, più frequenti in passato, secondo le quali sarebbe vietato ai medici somministrare a pazienti terminali gravemente sofferenti dosi di sedativi tali sì da alleviare il dolore ma che potrebbero accelerare il decesso del paziente che accetta il rischio; una simile interpretazione della legge comprimerebbe e ignorerebbe il dovere di accompagnare il paziente anche nelle ultime fasi della vita alleviandone la sofferenza, dovere che il medico potrebbe sentire deontologicamente ma anche personalmente come cogente.
Nella formazione dell’ethos professionale, insomma, sembrano convergere l’autoriflessione personale, di cui l’obiezione di coscienza è espressione diretta, e una dimensione più ampia che coinvolge l’intera comunità professionale, necessaria sia per la tutela degli aderenti sia per generare una sintesi valutativa fra i diversi punti di vista di coloro che esercitano una medesima professione. Invece l’idea che una scelta professionale implichi un’accettazione automatica di compiti imposti ex lege – magari anche contro il codice deontologico – è figlia di una concezione autoritaria del diritto che non ammette l’autonomia dei corpi professionali nella definizione dei propri fini e quindi della propria identità riducendo la professione a una mera tecnica spersonalizzante, pura competenza di mezzi, insensibile alla questione dei fini.
Radicalizzando questo approccio, se ad esempio la legge imponesse ai medici di rendersi disponibili ad eseguire sentenze di condanna alla pena di morte nemmeno in questi casi sarebbe ammessa l’obiezione di coscienza.
6.Una odc giuridicamente sostenibile per la bioetica: controlli di
coerenza, principio di legalità e odc relativa a obblighi di non fare
La questione esibisce una particolare problematicità data l’ovvia esigenza di rispetto dei principi di legalità e di certezza del diritto (art. 54 Cost.), oltre che dei diritti spettanti secondo la legge 21. In un paese come l’Italia la questione del rispetto della legalità non può essere sottovalutata e l’odc dev’essere configurata in modo tale da evitare ogni confusione al riguardo. La sfida del riconoscimento giuridico dell’odc consiste proprio nell’evitare di incrinare il principio di legalità e nel far convivere la legittimità dell’obiezione, specialmente quando inerisce a valori costituzionali fondamentali, con la tutela di chi è titolare di diritti legalmente previsti.
Anzitutto, occorre far fronte alla preoccupazione che l’odc possa essere oggetto di abusi e occorre pertanto disciplinarne le modalità d’esercizio in modo tale da ridurre questo rischio che è tuttavia ineliminabile completamente. È opportuno ricordare infatti un limite intrinseco al diritto, l’impossibilità di un completo e definitivo accertamento della volontà interiore degli individui (mediante il c.d. processo alle intenzioni), la quale dev’essere tenuta presente
sempre quando si tratta della tutela giuridica delle manifestazioni di volontà degli individui, onde tale limite non può diventare un pretesto per mortificare la libertà di coscienza di chi la invoca. La questione si pone piuttosto sul piano delle cautele giuridiche funzionali a escludere odc ragionevolmente (fondatamente) dubbie.
Sotto questo profilo, viene solitamente sottolineata l’esigenza di una c.d. prova di coerenza, deducibile a posteriori, ossia dopo che il soggetto ha invocato l’odc in generale, e tale prova concerne l’eventuale incompatibilità di atti successivi con la stessa obiezione di coscienza (ad esempio l’art. 9 della l. n. 194/1978 prevede che l’obiezione di coscienza «s’intende revocata con effetto immediato se chi l’ha sollevata prende parte a procedure o a interventi per l’interruzione della gravidanza previsti dalla presente legge, al di fuori dei casi di cui al comma precedente»; si tratta dei casi in cui «data la particolarità delle circostanze il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo»).
In secondo luogo, l’esigenza di rendere compatibile l’odc col principio di legalità fornisce il punto di vista con riguardo al quale può essere affrontata coerentemente in questo documento la questione del contenuto dell’obbligo giuridico contro cui l’odc può essere sollevata. Invero, solitamente si fa riferimento all’odc relativa a un obbligo di fare, la quale implica un’astensione da parte dell’obiettore, ma vi è anche chi prospetta l’ammissibilità dell’odc all’obbligo di non fare, la quale implica un comportamento commissivo dell’obiettore e quindi la realizzazione del fatto eventualmente vietato dalla legge. Mentre l’astensione permette che altri possa sostituirsi all’obiettore e fare ciò che lui non è disposto a fare, un comportamento attivo contra legem non dà spazio a una sostituzione che salvaguardi l’applicazione della legge stessa. Ne deriva che se si vuole concepire l’odc come compatibile col principio di legalità, l’odc agli obblighi di non fare deve essere esclusa proprio perché l’inadempimento dell’obbligo coincide con la definitiva violazione del precetto legale senza possibilità di organizzare un servizio sostitutivo che permetta di salvaguardare il principio di legalità.
7. La difficile questione circa i criteri di determinazione dei soggetti che possono far valere l’odc
Una questione delicata riguarda la delimitazione soggettiva all’obiezione di coscienza in funzione della partecipazione, più o meno diretta, a un determinato atto o attività. Su questo punto si registra una posizione più rigida che esige un concorso causale diretto di colui che è legittimato all’odc e una posizione più aperta che l’ammette anche in casi di partecipazione semplicemente ausiliaria. Resta il fatto, comunque, che moralmente e giuridicamente il criterio della causalità non è sempre preciso, come quando si fa riferimento a una causalità puramente naturalistica, perché la causalità si colora sempre del criterio soggettivo di imputazione della responsabilità (intenzionalità, colpa), onde l’intenzionale agevolazione può spesso risultare più grave, in termini di ascrizione della responsabilità, di una causazione diretta non intenzionale.
Inoltre, facendo riferimento all’ambito sanitario, il tema si complica nella misura in cui ai trattamenti chirurgici si vengono sostituendo nuovi trattamenti resi possibili dai recenti sviluppi della farmacologia e quindi si sposta l’asse della questione, perché l’agire del medico regredisce, dall’atto materiale costituito dal trattamento chirurgico, alla prescrizione del farmaco o, nel caso del farmacista, alla somministrazione di esso. La questione è di rilievo non limitato alla interruzione volontaria di gravidanza, con riguardo alla quale, peraltro, il CNB ha già avuto modo di occuparsi in riferimento all’odc dei medici e dei farmacisti relativamente a farmaci abortivi o di cui non è esclusa la potenziale abortività. La questione si pone anche in altre ipotesi: si pensi, per fare un esempio, alla prescrizione e somministrazione di farmaci letali, senz’altro illecita in Italia, ma ammessa in altri paesi.
In generale, la tesi restrittiva che tratta la legittimazione all’odc come un’eccezione da prevedere espressamente deve essere vagliata alla stregua del principio di uguaglianza, per stabilire se l’eccezione sia giustificata rispetto ai soggetti non inclusi dalla legge; l’eccezione potrebbe infatti produrre una discriminazione irragionevole di altri soggetti (pur sempre obiettori, ma non secundum legem) che si potrebbero trovare in condizioni analoghe a quelle dei soggetti esclusivamente previsti dalla legge (gli obiettori secundum legem), configurando in tal modo un privilegio per questi ultimi.
In ogni caso, la delicatezza del tema e anche la scarsa possibilità di individuare una regola legale astratta universalmente applicabile che non allarghi eccessivamente il numero dei soggetti obiettori né lo riduca in modo discriminatorio può suggerire l’intervento degli ordini o, più in generale, delle associazioni professionali per definire in concreto i soggetti legittimati all’odc e le situazioni in cui può essere sollevata. Questo suggerimento si legge anche nel recente parere del Comitato di bioetica spagnolo.
D’altra parte, il problema della delimitazione del diritto all’odc va compreso alla luce del principio per cui essa non è uno strumento di “sabotaggio” di discipline legali legittime, e pertanto quando un’odc è ammessa dovrà essere prevista l’organizzazione di un servizio che permetta comunque l’esercizio dei diritti legalmente riconosciuti nonostante la mancata partecipazione dell’obiettore. Né sabotaggio della legge da parte dell’odc, né sabotaggio dell’odc da parte della legge, si potrebbe riassumere. L’aspetto della tutela dei diritti risulta particolarmente rilevante nei casi di odc non legalmente prevista. In tali casi, a causa della mancanza di una regolazione legale delle modalità d’esercizio, si può determinare uno sbilanciamento a danno dei soggetti titolari di quei diritti (per esempio il diritto di ottenere un farmaco presentando la relativa prescrizione medica), il cui esercizio verrebbe di fatto ostacolato dalla decisione dell’obiettore.
Naturalmente, essendo poi la questione rimessa all’autorità giudiziaria, l’obiettore corre tutto il rischio di come il suo comportamento verrà valutato, tenuto conto che il giudice non potrà non prenderne in considerazione le conseguenze. Questo implica che una regolazione per legge dell’odc in chiave generale o per ipotesi particolari sarebbe molto opportuna e dovrebbe essere
accompagnata dall’indicazione delle misure idonee affinché il servizio non venga di fatto vanificato, ad esempio con previsione delle figure responsabili per l’attuazione di esso e delle sanzioni previste per le inadempienze, ossia le condizioni per evitare conflitti di coscienza che potrebbero essere dannosi per l’ordinato svolgimento della vita sociale.
L’odc in definitiva dev’essere compatibile con la legalità ordinamentale e questo elemento tempera anche la preoccupazione di chi giustamente paventa una banalizzazione di essa. L’odc eroica non è né può essere l’odc giuridicamente riconosciuta: nei casi di resistenza o di disubbidienza civile la persona deve accollarsi per intero le conseguenze giuridiche del proprio comportamento. L’ordinamento che ha posto un certo dovere o obbligo giuridico in ambito biogiuridico non intende contraddirsi ammettendo l’odc, ma semplicemente non è disposto a chiudere lo spazio di discussione sui valori fondamentali e a non perdere il proprio carattere inclusivo e pluralista. Perciò finché l’ordinamento ha la forza di ammettere l’odc mantiene un certo equilibrio; quando invece l’odc non è riconosciuta o gli obiettori vengono discriminati la legalità si riveste nuovamente del carattere creonteo (autoritario) – sola auctoritas facit legem – e l’odc è costretta a riassumere i tratti tragici del sacrificio di Antigone. La sfida dello stato democratico è di mantenere la tensione verso i suoi valori fondamentali nel rispetto del principio di legalità.
Conclusioni e raccomandazioni
Il CNB ritiene che:
a) L’obiezione di coscienza in bioetica è costituzionalmente fondata (con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo) e va esercitata in modo sostenibile; essa costituisce un diritto della persona e un’istituzione democratica necessaria a tenere vivo il senso della problematicità riguardo ai limiti della tutela dei diritti inviolabili; quando l’odc inerisce a un’attività professionale, concorre ad impedire una definizione autoritaria ex lege delle finalità proprie della stessa attività professionale;
b) La tutela dell’odc, per la sua stessa sostenibilità nell’ordinamento giuridico, non deve limitare né rendere più gravoso l’esercizio di diritti riconosciuti per legge né indebolire i vincoli di solidarietà derivanti dalla comune appartenenza al corpo sociale;
E su queste basi propone le seguenti raccomandazioni:
1. Nel riconoscere la tutela dell’odc nelle ipotesi in cui viene in considerazione in bioetica, la legge deve prevedere misure adeguate a garantire l’erogazione dei servizi, eventualmente individuando un responsabile degli stessi.
2. L’odc in bioetica deve essere disciplinata in modo tale da non
discriminare né gli obiettori né i non obiettori e quindi non far gravare sugli uni o sugli altri, in via esclusiva, servizi particolarmente gravosi o poco qualificanti.
3. A tal fine, si raccomanda la predisposizione di un’organizzazione delle mansioni e del reclutamento, negli ambiti della bioetica in cui l’odc viene esercitata, che può prevedere forme di mobilità del personale e di reclutamento differenziato atti a equilibrare, sulla base dei dati disponibili, il numero degli obiettori e dei non obiettori. Controlli di norma a posteriori dovrebbero inoltre accertare che l’obiettore non svolga attività incompatibili con quella a cui ha fatto obiezione.
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