Il gas e la responsabilità geopolitica italiana

Energia e nuove rotte

Qualcosa si muove nel settore delle infrastrutture di trasporto gas dall’Asia Centrale. Nuovi ed enormi sono gli elementi che condizionano il mondo delle pipeline. Ci sono state recenti scoperte nel bacino mediterraneo, in particolare un paio di enormi campi di gas nei dintorni di Cipro, che stanno condizionando non solo i rapporti tra Turchia e Grecia, ma anche la posizione che Istanbul vuole ricoprire in tutto il Medio Oriente. I turchi sono coinvolti in una difficile relazione anche con l’Iraq: ci sono voci che descrivono un rapporto commerciale ormai consolidato tra governo curdo e Turchia, la quale sta acquistando petrolio dall’Iraq del Nord per raffinarlo e rivenderlo ai curdi – mettendo a repentaglio il contatto tra Istanbul e il governo centrale di Baghdad.

La tradizionale “sfida” tra i due principali progetti di infrastrutture del “Corridoio Sud”, che collega le risorse le Caspio (e possibilmente del Medio Oriente) all’Europa, ha subito cambiamenti radicali. Il progetto “Nabucco”, sostenuto dall’Unione Europea – e finanziato dagli austriaci di Omv, dai romeni di Transgaz, dalla bulgara Ead, dalla turca Botas e dai tedeschi di Rwe – sembra essersi arenato su questioni politiche insolubili, tra cui la possibilità paventata di prendere parte del gas dall’Iran. South Stream, partecipato da Eni e sostenuto da Gazprom, sembra invece procedere, tanto che si parla di una decisione finale d’investimento entro la fine dell’anno. Cambiano però gli altri contendenti.

All’inizio del 2012 sembrava essere giunto in dirittura d’arrivo il progetto “Itgi”, che collegherebbe la Turchia a Grecia e Italia, sostenuto da Edison e dalla greca Depa. C’è stato però un problema: i produttori di gas non hanno accettato il fatto di perdere il controllo sull’infrastruttura di trasporto, che si rifornirebbe di gas dalla rete turca, per portarlo in Italia – e il gas turco proviene dall’area del Caspio.

Per questo motivo, la decisione dei produttori (e soprattutto dell Azerbaijan) è stata di far pressione sull’Italia affinché si cambiasse la struttura partecipativa di Itgi, perché il consorzio cedesse una quota di partecipazione fino al 51% ai proprietari del gas. Alcuni mesi dopo è arrivata la richiesta ancor più netta di preferire un’altra pipeline rispetto a Itgi, denominata “Tap” (“Trans-Adriatic-Pipeline”, distinta dalla “Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan” che rimane nel libro dei sogni). Tap è sostenuta dagli svizzeri di Egl e dalla norvegese Statoil. I produttori hanno proposto un’eventuale ingresso di un partner italiano nel consorzio: eventualmente – e non a caso – Edison, che avrebbe così una consolazione per la rinuncia a Itgi. L’ipotesi di accesso è stata prospettata anche a Enel: da qui la dichiarazione estemporanea del Ceo Fulvio Conti lo scorso 4 luglio: “Enel pronta a entrare nel Tap”. 

Il governo si sta orientando decisamente verso la soluzione Tap. Il 9 luglio il ministro degli Esteri Giulio Terzi ha dichiarato che l’Italia è “interessata ad approfondire” la questione della pipeline. Tale approfondimento è arrivato l’8 e 9 luglio, quando il sottosegretario agli Esteri Marta Dassù e il sottosegretario allo Sviluppo economico Claudio De Vincenti si sono recati nella capitale azera, Baku, per discutere i termini della questione. L’accesso di un’azienda italiana nell’infrastruttura dovrebbe essere ricambiato da piani di cooperazione commerciale e imprenditoriale tra Italia e Azerbaijan.

L’Italia sembra quindi voler appoggiare Tap, per non perdere l’occasione di avere accesso al nuovo approvvigionamento di gas. Il punto però è controverso, in un panorama che presenta numerosi rischi. Il rifornimento di gas per Tap arriverà da Shah Deniz, in Azerbaijan, campo in merito al quale la decisione finale d’investimento dovrebbe arrivare nel 2013. In quanto a permessi, al contrario di Itgi, la Tap è ancora molto indietro. Si corre, cioè, il rischio di avere troppo gas da Shah Deniz (circa 10 miliardi di metri cubi l’anno), senza avere pronta l’infrastruttura adeguata per il trasporto.

A questo punto, gli scenari che si aprono sono principalmente tre. La prima è la più ottimistica: Tap accelera (e di parecchio) i processi diplomatici, burocratici e – non ultimi – costruttivi, viene ultimato, e il gas azero arriva in Italia. La seconda è l’altro estremo: Tap non riesce ad ultimare tutto il processo, per cui al completamento dello sviluppo di Shah Deniz (e in particolare di “Shah Deniz II”, visto che la prima fase è già in produzione) si trasporta gas verso i Balcani tramite bretelle punto-punto, dalla Turchia, fino all’importante terminal di Baumgarten an der Marsch, in Austria. Da qui, il gaz azero raggiungerebbe l’Europa. La terza ipotesi è un ibrido in cui il gas non arriva a Baumgarten e si ferma nei Balcani.

La seconda soluzione taglierebbe fuori l’Italia, poiché il paese perderebbe la posizione di “hub” del gas per i volumi di Shah Deniz. La terza soluzione, in cui il gas si ferma nei Balcani, sarebbe peggio: diventerebbe un incubo geopolitico. I Balcani non sarebbero in grado di assorbire più di 3-4 miliardi di metri cubi di gas l’anno, per cui Shah Deniz avrebbe 6-7 miliardi di sovraccapacità. Questa prenderebbe necessariamente la via moscovita: dall’Azerbaijan percorrerebbe la rotta verso Nord, per arrivare in territorio russo. I russi sarebbero ben contenti: Mosca ha l’impellenza di sostituire i campi con cui rifornisce attualmente l’Europa, e sa di dover sviluppare alternative in territori difficili, tra tundre e gelo siberiano – vedasi la prospettiva della penisola di Yamal. Se anziché addentrarsi in Siberia potesse avere maggior accesso al gas azero, avrebbe molte preoccupazioni di meno – e molti meno rubli da sborsare.

Questa prospettiva esporrebbe l’Italia a una responsabilità geopolitica enorme: la decisione di sostenere Tap potrebbe essere interpretata come l’atto che consentirà alla Russia di continuare a controllare una porzione significativa delle risorse destinate all’Europa, tramite l’opzione sui volumi aggiuntivi di Shah Deniz. Non finisce qui: Tap sarebbe un’infrastruttura in cui il controllo dei produttori sarebbe totale – la norvegese Statoil, partner di Tap, controlla il 25,5% del consorzio per lo sviluppo di Shah Deniz, insieme alla britannica Bp, i francesi di Total, gli iraniani di Nioc, i turchi di Tpao e la russa Lukoil. In paragone, Itgi radunava una catena di dieci shipper, rendendo più difficili sistemi di controllo coordinato sui prezzi di vendita. 

Rimane tutto da verificare, poi, l’effetto sul prezzo del gas in Italia. Se l’obbiettivo italiano è raggiungere un livello di prezzo simile alla media europea, Tap potrebbe non essere la soluzione migliore. Il progetto Itgi di Edison aveva un concetto che invitava all’ottimismo: chi compra il gas in Turchia governerebbe anche la capacità di trasporto, con contratti di lungo termine che si avvicinino ai prezzi del Nord Europa. Per Tap, vista la struttura di controllo, tutto è ancora da verificare.

Rimane quindi da sperare che il governo sia consapevole del rischio geopolitico e commerciale cui sta esponendo l’Italia nell’annunciare l’appoggio a Tap. Il rischio è che la fretta di “dichiarare la conclusione di un accordo” possa andare a detrimento di risultati di lungo termine. Se c’è da essere statisti, è in questi ambiti che occorre dimostrarlo.

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