Investire in Italia? Ormai è più sicura persino la Colombia

Investire in Italia? Ormai è più sicura persino la Colombia

L’Italia è più rischiosa della Colombia. Sembra paradossale, ma secondo l’Euromoney country risk (Ecr), il coefficiente di rischio-Paese calcolato dagli analisti di Euromoney, è così. «I rischi politici ed economici sono aumentati negli ultimi dodici mesi, spingendo al ribasso il voto complessivo», si spiega. Il punteggio di Roma lascia poco spazio all’ottimismo: 58,9 punti su 100. Un anno fa esatto era a 70,6 punti, circa 11 punti sopra la Colombia, che si attesta a quota 60. Un declino che sembra irrefrenabile.

Roma peggio di Bogotá? Strano, ma vero. Due volte al mese la rivista Euromoney, fondata nel 1969 e fra i punti di riferimento per gli investitori istituzionali, pubblica gli aggiornamenti alla sua classifica dei Paesi più a rischio. E lo fa in base all’Ecr, che si compone di sette voci, ognuna con un peso diverso: rischio politico (30%), performance economica (30%), valutazioni strutturali (10%), indicatori sul debito (10%), rating creditizio (10%), accesso al finanziamento bancario (5%), accesso al mercato dei capitali (5%). Storicamente l’Italia era uno dei Paesi dell’eurozona più sicuri, ma con l’inizio della crisi tutto è cambiato.

Capire il motivo di questo declassamento non è difficile. L’incertezza politica aumenta sempre più all’avvicinarsi del 2013, anno in cui finirà il mandato del governo tecnico di Mario Monti. Come ha ricordato anche l’agenzia di rating Moody’s nell’ultimo downgrade del giudizio sul debito sovrano, portato a Baa2, l’instabilità del panorama politico dell’Italia può portare a un deragliamento della situazione. Inoltre, pochi giorni fa il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha spento ogni aspettativa di Palazzo Chigi, certificando che il Pil si contrarrà di 1,9 punti percentuali nel 2012 e sono in previsione altre revisioni al ribasso. Bassa crescita, elevato debito pubblico e lassismo nell’adozione delle riforme strutturali: sono questi i tre motivi principali per cui il giudizio sull’Italia è stato abbassato da Euromoney. A questo, si è poi aggiunto nelle ultime settimane il pericolo di un «deterioramento del clima politico-istituzionale tale da rallentare il Paese».

I problemi italiani hanno diversi effetti collaterali, soprattutto sui mercati finanziari. Sono crescenti le difficoltà di accesso ai mercati, a tal punto che il rischio è solo uno: la perdita di questo accesso. I problemi più evidenti sono quelli sul mercato obbligazionario, in cui l’Italia è ancora sotto pressione. Se a inizio giugno 2011 il tasso d’interesse sui titoli di Stato decennali era intorno quota 4,8%, oggi è sopra il 6 per cento. Due anni fa, il divario era ancora più marcato: l’Italia scendeva sui mercati promettendo un rendimento intorno al 4 per cento.

Sempre complicata anche la situazione degli istituti di credito italiani. Il costo del loro rifinanziamento sul mercato interbancario, come spiegano diverse analisi dei centri di ricerca delle banche internazionali, è ancora troppo elevato. Questo nonostante gli sforzi compiuti dalla Banca centrale europea (Bce), che fra dicembre e febbraio ha concesso l’apertura di linee di credito per oltre 1.000 miliardi di euro alle banche europee con le due operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Long-Term refinancing operation, o Ltro). E nonostante l’abbassamento al minimo storico del tasso di rifinanziamento, portato allo 0,75 per cento. Del resto, anche il governatore della Banca di Francia, Christian Noyer, ha rimarcato che «il cambiamento dei tassi d’interesse non ha avuto gli effetti sperati, né si è tradotto in immediati miglioramenti per l’economia reale». In un’intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, ha spiegato che i rischi dell’uso di questo genere di politica monetaria straordinaria non devono essere sottovalutati. Alla luce dell’insuccesso dell’ultimo taglio del costo del denaro, come detto da Noyer, bisogna evitare che si creino ulteriori squilibri.

Un altro parametro che ha contribuito a peggiorare la performance dell’Italia è stato il mercato dei Credit default swap (Cds). I derivati che proteggono dal rischio d’insolvenza di un emittente ora sono negoziati a circa 500 punti base. Vale a dire che il detentore di un titolo di Stato quinquennale del valore di 10 milioni di dollari deve pagare 500mila dollari l’anno per assicurare il suo bond contro il fallimento sovrano dell’Italia. Più o meno lo stesso livello che ha ora l’Irlanda, che veleggia intorno quota 540 punti base. L’unica differenza è che Dublino, al contrario di Roma, è stata salvata nel novembre 2010 con 85 miliardi di euro.

Euromoney non è la sola entità che pensa che l’Italia sia più a rischio della Colombia. Secondo una ricerca di Danske Bank, «le tensioni politiche italiane, unite allo scenario di un possibile peggioramento della crisi che sta vivendo l’Europa, stanno rendendo assai più interessanti gli investimenti in titoli di Stato dei Paesi sudamericani». Fra questi, anche la Colombia del presidente Juan Manuel Santos, il cui Pil crescerà del 4,7% secondo le stime del Fmi. Tutto un altro ritmo rispetto a quello dell’Italia.  

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