La “guerra” tra capo dello stato e procure? Prevista in Costituzione

La “guerra” tra capo dello stato e procure? Prevista in Costituzione

Con il decreto emanato oggi, il Presidente della Repubblica ha deciso di sollevare un conflitto di attribuzione nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo, dando mandato all’Avvocato Generale dello Stato di difenderlo nel giudizio che si terrà davanti alla Corte costituzionale.

Secondo l’articolo 134 della Costituzione, infatti, alla Corte spetta, fra le altre sue funzioni, quella di “arbitro” fra i poteri dello Stato, quando il conflitto sorto verte su norme di rango costituzionale ed è promosso fra organi di vertice, titolari di poteri di decisione definitivi appartenenti a due poteri fra loro diversi (come nel caso di specie, trattandosi del Capo dello Stato da una parte, e della magistratura, dall’altra; se, invece, si fosse trattato, per esempio, di un conflitto di competenza fra due procure o fra due tribunali o fra due ministri, la via per risolverlo sarebbe stata differente).

L’istituto, regolato oltre che dalla Costituzione anche dalla legge n. 87 del 1953, risponde alla necessità di mantenere l’ordine fra i poteri statali al più alto livello, risolvendo crisi di indubbia gravità istituzionale che si possono verificare, in linea di principio, quando i due organi si dichiarano entrambi competenti (o incompetenti) a provvedere in un dato caso; oppure quando uno dei due ritiene di essere stato “menomato”, nelle sue prerogative, dal cattivo uso del potere fatto dall’altro (purché si tratti di atti che non hanno valore legislativo).

Il giudizio, in estrema sintesi, si svolge in due fasi consecutive: nella prima, la Corte verifica se il conflitto rispetta i requisiti previsti; nella seconda, risolve la controversia, stabilendo a chi spetta la competenza, ovvero come debba essere esercitato “correttamente” il potere in modo da non ledere le attribuzioni dell’altra istituzione (e, se è stato adottato un atto illegittimo, questo viene annullato).

Nel caso di specie, il Presidente lamenta la menomazione delle proprie prerogative costituzionali a causa dell’attività di intercettazione disposta dalla procura di Palermo nell’ambito dell’indagine sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. Durante le operazioni disposte su un’utenza privata, è stata, infatti, captata una conversazione dello stesso Napolitano (l’utenza del Capo dello Stato – va precisato – non era oggetto di intercettazione).

L’articolo 268 del codice di procedura penale prevede che i risultati delle intercettazioni, disposte dal pubblico ministero, entrino nel fascicolo, salvo che siano manifestamente irrilevanti, oppure siano vietate dalla legge.
La valutazione è compiuta sia dalle parti (pubblico ministero, imputato, …), sia dal giudice (anche d’ufficio), nel corso di un’apposita udienza, e le parti hanno facoltà di esaminare prima i documenti e di ascoltare le registrazioni.
Qualora l’intercettazione sia vietata, la relativa documentazione è inutilizzabile ed è distrutta su ordine del giudice, salvo che essa costituisca corpo di reato (articolo 271).

A detta della procura, la comunicazione di Napolitano è processualmente irrilevante, tanto che si esclude di utilizzarla sia in sede investigativa, sia nel processo. I pubblici ministeri hanno già pubblicamente detto che ne chiederanno la distruzione con le forme subito sopra viste.

Il Presidente ritiene – invece – che non si tratti di una questione di “irrilevanza” della conversazione rispetto alle indagini in corso (irrilevanza sulla quale, peraltro, non nutre dubbi, come già chiaramente detto) ma di un’ipotesi (assai grave) di “illegittimità” della stessa intercettazione effettuata.

Il Capo dello Stato, infatti, non solo non sarebbe sottoponibile a intercettazione “diretta” (vale a dire, sulle sue utenze), ma neppure “indiretta” (quando, cioè, è registrata la sua conversazione con un intercettato) e ciò perché l’art. 7 della l. n. 219/1989, che regola il procedimento c.d. di “impeachment”, stabilisce che, nei casi di incriminazione per alto tradimento e attentato alla Costituzione (articolo 90 della Costituzione), il Presidente possa essere intercettato solo se la Corte costituzionale lo ha prima sospeso dalle funzioni, e se un apposito comitato parlamentare bicamerale lo ha richiesto. A maggior ragione, quindi – sembra essere la tesi di Napolitano – il Capo dello Stato non è legalmente intercettabile nell’ambito di indagini per reati non “presidenziali”, per di più quando la sua intercettazione è del tutto “casuale” e il procedimento per reato “comune” è a carico di terzi.

Le conversazioni ascoltate dovrebbero, quindi, essere distrutte immediatamente e non soggette ad alcuna valutazione da parte degli inquirenti – neanche al fine di stabilire se sono o no “rilevanti” per le indagini o per il processo – e men che meno essere messe a disposizione delle altre parti processuali. Perciò, avendo sino ad ora conservato le trascrizioni di un’intercettazione vietata e avendole già sottoposte a valutazione (e, in futuro, anche alla conoscibilità degli altri attori del processo), la procura avrebbe gravemente leso una prerogativa presidenziale, vale a dire la sua totale “non intercettabilità”.

Quasi a voler sottolineare che non sta agendo in quanto “Giorgio Napolitano”, ma a tutela della stessa Istituzione presidenziale, poi, il Presidente richiama una frase di Einaudi, secondo la quale sarebbe dovere di ciascun Capo dello Stato evitare il sorgere di precedenti – come avverrebbe ora, se non fosse stato sollevato il conflitto – che in futuro consegnino al successore una carica “menomata” in qualche immunità o facoltà.

Così posta la questione, il punto è quindi duplice: il Capo dello Stato gode effettivamente di un’immunità personale – cioè, non legata all’esercizio delle sue funzioni (reati presidenziali esclusi) – in base alla quale ogni captazione delle sue conversazioni, in qualunque modo essa avvenga, è vietata?

E, ove l’intercettazione sia da considerarsi avvenuta in violazione della legge, la sua distruzione può avvenire direttamente da parte del giudice, subito e solo su richiesta – dovuta – del p.m.?

L’interpretazione estensiva dell’art. 7 della l. n. 219 del 1989 data dal Presidente Napolitano nel ricorso (la norma di legge riguarda, infatti, espressamente i soli “reati presidenziali”), e una lettura della stessa posizione istituzionale data dalla Costituzione al Presidente della Repubblica, del tutto peculiare vuoi sul piano interno, vuoi su quello internazionale, sembrerebbero, in effetti, dar buona ragione all’odierno ricorrente.

Anche se si tratta di un’intercettazione illegittima, però, la sua distruzione non può avvenire senza il rispetto scrupoloso delle regole previste dal codice di procedura penale per le intercettazioni inutilizzabili in quanto vietate, e quindi senza un pieno contraddittorio fra tutte le parti in un’apposita udienza.

Non c’è dubbio che si tratta di un conflitto fra poteri la cui “temperatura”, oltre che giuridica anche istituzionale, e soprattutto “politica”, è molto alta, per lo sfondo sul quale avviene (la c.d. “trattativa Stato-mafia”), per la veste dei soggetti coinvolti (Nicola Mancino, il cui nome ricorre in questi giorni sulla stampa come possibile interlocutore del Presidente Napolitano nelle conversazioni intercettate, è stato Ministro dell’Interno proprio nel periodo delle c.d. “stragi di mafia”, e successivamente Presidente del Senato e Vicepresidente dell’organo di autogoverno della stessa magistratura), per il clima generale del Paese, nell’anno in cui ricorrono i quattro lustri dalle stragi di Capaci e Via D’Amelio, che reclama a gran voce, e qualche volta anche ad ogni costo, trasparenza e verità.

E, tuttavia, è la stessa legalità, anche costituzionale, che senz’altro ispirava coloro che hanno pagato con la vita il servizio allo Stato, a richiedere che la tenuta e l’equilibrio del sistema costituzionale, di tutte le sue parti (Presidente della Repubblica e magistratura), sia sempre, attentamente, preservata, rimettendo, quando è il caso, agli organi costituzionalmente previsti, e alle forme stabilite, lo scioglimento di nodi istituzionali così complessi.

*Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico, Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Studi internazionali, giuridici e storico-politici

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