È davvero una delizia l’affinità elettiva che sembra legare Angela Merkel e il premier italiano Mario Monti. Viene da pensare che, dai tempi del cucù cazzone di Berlusconi in quel di Trieste, quattro anni fa. Merkel e Monti, sostengono alcuni, riescono a intendersi bene grazie alla comune origine accademica – e Angela, chimica fisica, di affinità elettive se ne intende bene.
La crisi europea è affrontata come un problema scientifico, e al marketing si sacrificano i fatti. C’è da essere grati a Mario Monti per aver ristabilito la credibilità dell’esecutivo italiano agli occhi della maggiore economia continentale, per quanto si tratti di un esecutivo “anomalo”.
Eppure, vien da pensare che tale affinità elettiva celi una trama da gioco delle parti. Il premier italiano la scorsa settimana a Bruxelles ha potuto godere della sua giornata di celebrità, quando i media italiani hanno sostenuto che avesse “piegato” la Merkel. Il gioco è continuato ieri a Roma, quando si è parlato ripetutamente di cooperazione. C’è solo un sospetto: che Angela sia venuta in Italia a presentare il conto per lo scudo anti-spread.
Mario Monti ha comunicato che: «Il governo intende proseguire nel contenimento del bilancio, nella disciplina fiscale, nelle riforme strutturali e, in prospettiva, nella crescita». Tralasciando l’inquietante “in prospettiva”, sembra cioè che un ruolo tedesco di salvatore della patria europea possa essere stabilito solo al prezzo di riforme lacrime e sangue, senza la possibilità di un impulso di deficit spending una volta che le dette riforme siano state completate.
Perché di par suo, non dimentichiamolo, la priorità della Germania si chiama Germania. Se Roma val bene una messa, siamo ben contenti degli elogi di Angela alle azioni dell’esecutivo italiano. Siamo contenti del fatto che «Germania e Italia si appoggiano a vicenda», e che il governo di Mario Monti abbia «intrapreso una molteplicità di riforme in tempi rapidissimo e ha preso decisioni veramente fondamentali», secondo Angela.
Ma il nocciolo della questione si ricava da poche, laconiche parole: «Se i nostri vicini in Europa non stanno bene, neanche noi tedeschi possiamo stare bene: è nel nostro interesse che tutti gli altri Paesi abbiano un positivo sviluppo economico, altrimenti la Germania non potrà mantenere la sua prosperità». Sono frasi degne di uno Ziggy Marley in versione economica. Si possono tradurre in maniera più ortodossa: la Germania è molto esposta verso l’Italia, sia come mercato esportativo, che come debito pubblico (le banche tedesche detengono oltre 226 miliardi di euro di titoli di stato italiani, pari a circa il 10% del Pil tedesco). I tedeschi, insomma, si sentirebbero meglio se evitassero di buttare i soldi dalla finestra della spesa pubblica italiana.
Si potrebbe pensare, quindi, che il conto tedesco possa essere molto salato, ma non possiamo peccare di pessimismo. È pur vero che il “trionfo” italiano a Bruxelles proprio un “trionfo” non è stato, ma l’azione congiunta di Merkel e del premier, completata da una bombastica intervista di Monti sui media tedeschi alcuni giorni fa, è servita a far passare all’elettorato tedesco il messaggio che la Germania felix, per rimanere tale, deve fare qualcosa in più per l’Europa.
Per questo, nelle ultime due settimane gli equilibri sono cambiati. L’Italia ha il vantaggio di essere il più virtuoso tra i paesi peccatori (Grecia, Spagna, Portogallo e in parte Irlanda), e Angela vuole far leva su di noi per ristabilire gli equilibri in Europa. Mario Monti sta portando avanti un’azione egregia per far passare il messaggio che la disciplina fine a se stessa trascinerà nel baratro Italia, Germania e tutta l’Europa. Speriamo che il premier creda veramente in questa strategia, perché poi c’è da sperare finalmente che l’Europa politica possa essere realizzata. C’è da sperare che l’industria italiana, in caduta libera, possa presto fare affidamento su riforme “alla tedesca” in grado di farla ripartire, pur se “in prospettiva”.
In fondo, lo pretende la Merkel. Rimane solo da capire come questo possa avvenire: tasse sui profitti commerciali al 68% e tagli alla spesa pubblica non sono esattamente la formula impiegata dai tedeschi per diventare i leader in Europa.