La spending review risparmia i manager delle ex municipalizzate

La spending review risparmia i manager delle ex municipalizzate

I lettori sicuramente si ricorderanno di Fausto Di Mezza, bresciano d’adozione. Nominato di recente alla vicepresidenza del consiglio di gestione di A2a, utility lombarda che fornisce elettricità e gas a Milano e Brescia e candidato dalla Leonessa alla poltrona, aveva presentato uno stringato curriculum in cui venivano evidenziati i titoli di merito “figlio di” e “nipote di”, imprescindibili per garantirgli lo standing adeguato al ruolo che oggi ricopre più della sua competenza in materia.

Purtroppo le ex municipalizzate sono tradizionalmente dei dispenser di poltrone a cui i sindaci fanno ampio ricorso quando devono piazzare i loro uomini e blindare il consenso, a prescindere dalla competenza in materia di dei rifiuti, luce, acqua o gas. Non a caso, quando un’amministrazione locale cambia colore, le prime teste capitolare sotto la scure dallo spoil system sono solitamente quelle dei manager delle utilities, spesso protagonisti di scandali, gestione distratta degli appalti, sperperi e corruzione. E che possono dormire sonni tranquilli: il decreto sulla razionalizzazione dei costi pubblici li ha soltanto sfiorati. 

A leggere il comunicato sulla spending review, sembra però che il tridente dei commissari Amato-Bondi-Giavazzi abbia deciso di risparmiare proprio loro, gli amministratori delle utilities quotate in Piazza Affari: «[…] I CDA di queste società dovranno essere composti da non più di tre membri. Di questi, due devono essere dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione, in caso di società a partecipazione diretta; oppure due dipendenti della società controllante, per le società a partecipazione indiretta», recita la nota di Palazzo Chigi, che prosegue: «Il terzo componente ha funzioni di presidente e amministratore delegato. Viene, comunque, consentita la nomina di un amministratore unico». Peccato che, nella bozza del Dl che è circolata ieri, l’art. 5 prevedeva che «le disposizioni […] non si applicano alle società quotate ed alle loro controllate».

Ovviamente non è detto che la cura dimagrante equivalga a efficienza nella governance, ma se non altro dovrebbe servire a circoscrivere i carrozzoni. Quelli quotati invece rimangono, pur non essendo più, con buona pace di sindaci e piccoli risparmiatori, le macchine da dividendi di un tempo. Niente scure per Eni e Terna. Neanche per Acea, Hera, Iren, A2a, Ascopiave, e Acegas-Aps. Nonostante, da un anno a questa parte, i titoli hanno perso rispettivamente il 36,83%, il 27,23%, il 73,46%, il 60,25%, il 44,4% e il 13,6 per cento. Taglio ai dividendi, business e tecnologie simili, pesante influenza della politica sulla gestione. Sono alcuni dei motivi per i quali il ministro Passera – contrario al congelamento delle tariffe (che inizialmente doveva rientrare nella spending review ma è stato poi abolito) proprio per l’effetto depressivo del provvedimento sulle quotate – è da sempre un sostenitore della loro fusione. 

D’altronde, basta spulciare la cronaca locale per leggere di coincidenze strane come quella di Patrizia Polliotto, che siede nel board della holding che controlla Iren e allo stesso tempo nel cda di Biancamano, attiva nel settore dell’igiene ambientale che – attraverso la controllata Aimeri – si è aggiudicata tra l’altro un appalto di oltre 4 milioni di euro proprio da Iren Emilia. Oppure di Mauro Roda, consigliere di amministrazione di Hera e allo stesso tempo presidente del comitato di tesoreria del Pd bolognese. Un anno fa fu proprio l’attuale ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, quando ricopriva la carica di commissario straordinario della città felsinea, a imporre la non riconferma dei consiglieri indicati dal Comune, primo azionista con il 18,7% del capitale – Francesco Sutti, Paolo Trombetti e Stefano Zolea – ai piani alti dell’ex municipalizzata. 

A Trieste è emblematico il caso di Marina Monassi, attuale presidente dell’Autorità portuale della città – che di recente si è aumentata lo stipendio di ben 120mila euro l’anno in barba alla crisi – nominata nella primavera del 2011 quando era ancora direttore generale di Acegas-Aps, costretta dalle montanti polemiche a rinunciare in extremis al doppio stipendio. La società, peraltro, è presieduta da Massimo Paniccia, che è anche numero uno del Mediocredito del Friuli Venezia Giulia e della Fondazione Cassa di risparmio di Trieste. Le poltrone non sono mai troppe.

Se il Nordest piange, Roma non ride. Lo sa bene Umberto Marroni, capogruppo del Pd in Campidoglio rimasto ferito nel corso di un acceso consiglio comunale per la vendita del 21% di Acea sul 51% delle quote di proprietà della municipalità guidata da Alemanno. La società è presieduta da Giancarlo Cremonesi, famoso per le sponsorizzazioni allegre concesse da Acea a svariati eventi della Capitale – oltre che al finanziamento al comitato del “no all’epoca del referendum sull’acqua pubblica – e poi per aver pagato l’affitto, a 200 metri dal Quirinale, a Paolo Zangrillo, direttore del personale della società e fratello del medico personale di Berlusconi, come ha denunciato lo scorso febbraio Massimo Valeriani, consigliere Pd in Campidoglio. Un comportamento che stride con la mission di valorizzare gli investimenti per gli azionisti. Per ora rimarrà tutto come prima, almeno fino a quando le condizioni del mercato e del consenso politico saranno favorevoli alla fusione delle multiutility.