LONDRA – «Ogni tanto la società britannica viene invasa da questi scandali. L’incorruttibilità non è di certo una delle nostre qualità». Dentro la Old Lady di Threadneedle Street, quella Bank of England che ora fa finta di non sapere, il clima non è dei migliori. La manipolazione del London Interbank Offered Rate, o semplicemente Libor, è già il peggiore scandalo che la City londinese ha mai vissuto. La prima a entrare nel calderone della mistificazione del tasso d’interesse a cui si prestano i soldi gli istituti bancari britannici è stata Barclays, che ha manipolato il Libor fra l’agosto 2005 e il maggio 2008. E poi, via via, tutti gli altri operatori del mercato stanno entrando nel circolo vizioso di questa vicenda. Ma come spiegano a Linkiesta fonti della Bank of England, ci sono due possibilità: «O salta tutto il sistema, dato che tutti sono coinvolti, oppure si trovano dei colpevoli e si richiude il vaso di Pandora».
Nei corridoi della Old Lady non si fanno nomi. Parlare con Paul Tucker, l’attuale vice governatore della Bank of England beccato con un paio di email effimere scambiate con Bob Diamond, ex numero uno di Barclays, è quasi impossibile. Ma è facile avvicinare i suoi collaboratori, come Elizabeth, giovane ma scafata economista della banca centrale inglese. Il Libor-gate fa paura e lo si capisce dall’attenzione con cui dosa le parole: «Ci sono delle indagini in corso, chi ha sbagliato nel settore privato pagherà anche penalmente se è il caso». Frasi di circostanza, che lasciano trasparire che il rischio di un coinvolgimento a più livelli. Securities and exchange commission (Sec), Financial services authority (Fsa), Bank of England, Federal Reserve e governi di Stati Uniti e Regno Unito: Altro che banche, che il Libor fosse manipolato era sotto gli occhi di tutti. Come Timothy Geithner, attuale segretario del Tesoro Usa, che pochi giorni fa è stato torchiato in merito alle sue conoscenze della questione. «Lui sapeva, lo ha ammesso, ma ha ricordato al Congresso che ha fatto di tutto per far capire agli inglesi che sta succedendo qualcosa di particolare, che doveva essere messo sotto controllo: un atteggiamento molto particolare insomma», dice Pierre, nome francese ma passaporto britannico, da sei anni a capo del risk management di un fondo hedge con base a Londra.
In tanti dicono che la colpa è degli americani. «Loro vogliono fare profitto, sono come dei cani randagi che non mangiano da giorni: appena vedono qualcosa di commestibile, lo spolpano», dice Matthew, banchiere dei Lloyd’s. Lui si ricorda di quando, nel 2008, il Tesoro statunitense chiese a Barclays di acquistare gli asset, ormai deteriorati di Lehman Brothers. Ma la banca americana, che aveva circa 600 miliardi di dollari di debiti, non poteva essere salvata. Dopo una due diligence molto veloce, e molto sommaria (ma i debiti erano impossibili da ripianare), Barclays rifiutò. «L’affare non si fa», dissero i vertici britannici. Lehman fallì, ma i londinesi presero tutto quello che potevano a prezzo di saldo: divisione investment banking, trading e quartier generale di New York. «È stata una piccola vendetta contro gli yankee che hanno rovinato la cultura britannica della finanza», spiega Alan, cinquantenne scozzese nell’animo e dirigente di Royal Bank of Scotland. Infatti, secondo lui tutto deriva dalla presidenza americana di Ronald Reagan. «Nessuno me ne voglia, dato che sono assolutamente pro mercato, ma la deregulation ha portato nel mondo bancario anche chi non aveva esperienza e, quindi, ha giocato sporco», afferma Alan. Il riferimento è a chi cerca facili guadagni senza avere scrupoli. Greed, avidità: il motivo è sempre lo stesso. Soldi chiamano soldi, e chissenefrega del rispetto, perfino fra i banchieri.
Truccare sul Libor è come ammettere di tradire la moglie nell’ufficio di fianco al suo. Il paragone che fa Robert, funzionario della Fsa, è calzante. «Questo tasso è una stima, che ogni banca fa, trovarsi nella situazione di manipolare il tutto all’oscuro delle authority può succedere, ma non può durare per molto», dice. Peccato che sia durato per almeno tre anni. Anche secondo lui è tutto il sistema a essere colpevole. Non è solo una questione di etica, spiega. No. È come l’eurozona, che sta vivendo un problema strutturale, di cultura. Oppure, come l’italianissima Tangentopoli. Già nei primi giorni dello scandalo, a inizio luglio, un trader del Credit Suisse disse a Linkiesta che «il Libor-gate potrebbe essere per il Regno Unito a ciò che è stato Tangentopoli per l’Italia». E la conferma arriva parlando coi banchieri della City. Le ramificazioni sono ovunque e fa paura, oltre che rabbia, che il premier inglese David Cameron non si sia ancora espresso ufficialmente. Ha preferito lasciar la palla al Cancelliere dello Scacchiere George Osborne, che oltre ad attaccare il precedente esecutivo, poco ha fatto.
Gli assordanti silenzi della City sono sempre più pesanti. Sir Mervyn King e Lord Adair Turner, governatore della Bank of England e il numero uno della Fsa, non potevano non essere a conoscenza delle manipolazioni. E non è una mera questione di chi ha guadagnato o meno a discapito dei consumatori. Infatti, la manipolazione del Libor è stata fatta per lo più al ribasso, per mantenere bassi i tassi. In questo modo le banche ricevevano liquidità con notevoli risparmi, ma contribuivano anche ad abbassare le rate dei mutui, dato che queste erano agganciate all’andamento del Libor. «In pratica, è come se si fossero messi d’accordo per avere denaro a un prezzo più basso, sia prima il 2008 sia dopo il 2008», spiega Alan. Due i motivi: se prima del crac di Lehman Brothers l’obiettivo era spingere sull’acceleratore delle attività finanziarie per avere lauti bonus di fine anno, dopo il fallimento della banca statunitense si è cercato di tenere basso il costo del denaro interbancario per evitare crisi di liquidità. Questo giustifica la manipolazione del Libor? Ovviamente no. L’interdipendenza di Bank of England, Fsa, City e sistema bancario è troppo elevata e la ramificazione rischia di andare contro lo stesso concetto di libero mercato che nella Gran Bretagna ha trovato la sua patria.
«In Italia voi avete il Gattopardo. Ecco, immagino che si vada verso quella soluzione». Ne è certo Paul, gestore di un hedge fund con al suo interno diversi membri delle istituzioni finanziarie britanniche per via del meccanismo delle revolving doors, le porte girevoli della finanza che funzionano tanto a New York quanto a Londra e Singapore. Ed è forse per questo che sia Diamond sia il presidente Marcus Agius sia il direttore finanziario Chris Lucas, su cui oggi la Fsa ha aperto un fascicolo, probabilmente troveranno altre vie per tornare nell’universo bancario. Si spera non fra i regolatori.