Ma dove sono finiti gli intellettuali tedeschi? Perché non hanno nulla da dire sulle traballanti sorti dell’Ue? Certo, l’ultimo pamphlet di Hans Magnuns Enzensberger si occupava del «mite mostro» Bruxelles. Günter Grass, dopo la sua poesia sulla politica aggressiva di Israele, ne ha scritta un’altra, «La vergogna dell’Europa», in cui attaccava la miopia della politica europea nei confronti della Grecia. Ma, il pamphlet di Enzensberger risale a marzo dell’anno scorso, e la poesia in difesa della Grecia di Grass comunque non poteva avere l’impatto che aveva avuto il suo duro attacco a Israele.
Molto più interventisti, appaiono oggi invece gli economisti. Divisisi in due fazioni ben distinte, sono attualmente i veri protagonisti del dibattito sul futuro europeo, come testimonia anche il caso più recente. Un paio di settimane fa, un gruppo di quasi duecento economisti, capeggiato da Hans-Werner Sinn, direttore dell’istituto di ricerche economiche di Monaco, Ifo, ha pubblicato una lettera aperta, con la quale si voleva mettere in guardia i cittadini riguardo alle decisioni prese nell’ultimo vertice di Bruxelles (particolarmente inviso, agli occhi dei firmatari, il progetto di unione bancaria e scudo anti spread): così si rischia di andare a fondo tutti, è la loro opinione.
Un’iniziativa che ha creato scalpore nel Paese e non solo, e alla quale è seguita prontamente la replica di un altro gruppo di esperti (non solo tedeschi però), guidati da Peter Bofinger, membro del comitato dei saggi che affianca il governo federale in questioni economico-finanziarie. Questi hanno perorato la causa di un’Europa sì virtuosa, ma molto più solidale. E ancora, un’accelerazione dei tempi, per rendere esecutive le decisioni prese a Bruxelles. Bofinger e alcuni suoi colleghi tedeschi poi, si sono detti molto allarmati dai toni nazionalistici della lettera aperta di Sinn e Co. In Germania, dunque, si dibatte, a volte anche con toni molto accesi, su come risolvere la crisi dell’eurozona. Ma il dibattito è quasi esclusivamente economico. L’idea di Europa in quanto progetto sociale, sovranazionale, di integrazione di popoli, culture e tradizioni sembra invece interessare meno. Il che non vuol dire che non vi sia alcuna iniziativa in questa direzione.
Lo scorso dicembre, per esempio, un quadrumvirato di alta caratura, composto dagli scrittori tedeschi Peter Schneider e Hans-Christoph Buch e dai due filosofi francesi André Glucksmann e Bernard-Heri Lévy, pubblicava un «Manifesto contro il provincialismo europeo». Quel manifesto ricordava: «Fu all’insegna del motto ‘Il sogno di un’Europa’, che nel maggio del 1988 intellettuali dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, del Nord e del Sud si riunirono a Berlino per porsi domande come: «Esistono tradizioni storiche e culturali sulle quali si può fondare un’identità europea? Gli scrittori sono adatti a rispondere a queste domande? In che misura le loro risposte differiscono da quelle dei politici, e perché non si trasformano in politica? …. Oggi, dopo la fine dell’Unione Sovietica e l’allargamento a Est dell’Ue, la domanda si pone in modo differente: Il sogno dell’Europa si è già esaurito? Abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità, e lasceremo ai nostri figli nient’altro che una montagna di debiti? Siamo solo più capaci di essere euroscettici e di addossare la colpa per ogni cosa che non va nel mondo all’apparato burocratico di Bruxelles? Perché tacciono gli intellettuali d’Europa?».
Secondo i quattro firmatari, l’Europa però non è finita, anzi, è all’inizio di un processo di unificazione, che non è a disposizione di politici che ragionano giusto in termini di campagna elettorale. Per questo, alla luce del pericolo di disintegrazione che l’Eu sta correndo «non dobbiamo più lasciare il dibattito in mano agli esperti… La vera Unione può riuscire solo se non viene governata dalla miopia, ma dal coraggio dei padri fondatori che avevano tratto le giuste conclusione dalle due guerre mondiali». Di tono simile è anche un altro appello, pubblicato un paio di mesi fa dal settimanale Zeit e sottoscritto da un centinaio di intellettuali di tutta Europa (tra questi Claudio Magris, Doris Dörrie, Anthony Giddens, Imre Kertész, Adam Michnik, Rem Koolhaas, Petros Markaris, Peter Esterházy). Sotto il titolo «Siamo noi l’Europa» si leggeva: «Nessuno dei grandi pensatori, da Jean-Jacques Rousseu a Jürgen Habermas, ha mai auspicato una democrazia che si esaurisse in un susseguirsi frenetico di vertici. La crisi del debito che sta dividendo l’Europa non è solo una crisi economica, ma è politica. E per risolverla abbiamo bisogno di una società civile europea e delle visioni di una generazione più giovane».
In questo manifesto si sollecitava poi le istituzioni, la Commissione Europea, i governi nazionali, il parlamento europeo e quelli nazionali a creare le condizioni e a mettere a disposizione gli strumenti giuridici e finanziari per dare vita a un anno di volontariato europeo dei cittadini, affinché dal basso venga finalmente a formarsi quell’unione politica, senza la quale l’Eu, anche se salvata dalla bancarotta, resterebbe quello che è oggi, un costrutto con molta poca anima. Alla luce anche solo di questi due esempi, sarebbe dunque sbagliato parlare di un silenzio quasi «assordante» degli intellettuali. Eppure questo silenzio c’è.
«Un giorno ci si chiederà dove erano gli intellettuali, quando l’Europa andava in frantumi» scriveva lo scorso novembre Thomas Assheuer sul settimanale Zeit. E in effetti, anche se gli appelli poi sono venuti, manca il dibattito. Non siamo certo ai tempi di Weimar, quando a interrogarsi sul futuro era tutta l’intellighentia tedesca. C’erano allora giornali come la Weltwoche di Berlino, l’alter ego della Fackel di Karl Kraus a Vienna, dove si esponevano le proprie idee su un ordine nazionale, europeo, mondiale futuro. E anche dopo, negli anni Sessanta e Settanta, si levavano alte le voci contro la generazione dei padri, così come contro la guerra in Vietnam e il pericolo di un riarmo. In confronto a quegli anni, dove ognuno si esponeva con le proprie idee, gli appelli in gruppo di oggi, sono certo qualcosa, ma troppo poco.
E così Assheuer si chiedeva, come mai l’Europa fosse diventata la cenerentola dell’elite intellettuale tedesca? Il sociologo Ulrich Beck in un articolo sul mensile di politica e attualità tedesco, Cicero, aveva provato ad avanzare anche un’ipotesi. Perché dopo la caduta del Muro nel 1989, si è assistito a un processo di «rinazionalizzazione» e di riappropriazione del proprio paese divenuto di nuovo un tutt’uno. Ma anche quel cammino nel frattempo si è chiuso. Perché allora nessuno dei vari Grass, Walser e via dicendo se la sente di riprendere quell’affermazione di Helmut Kohl: «La Germania è la nostra patria, l’Europa è il futuro», così come le domande che ci si era posti nell’ormai lontano 1988 a Berlino, per avviare un dibattito, che coinvolga veramente i cittadini. Un dibattito su come ci si immagina concretamente questa Europa, di cui l’attuale ha disperatamente bisogno?