Lo spread è il termometro, le riforme la cura che ci serve

Lo spread è il termometro, le riforme la cura che ci serve

Spread oltre 500 punti base, rendimenti dei Btp oltre il 6%, Piazza affari che perde oltre il 4,5 per cento. L’Italia sembra essere tornata nella spirale più nera della sua crisi. O, forse, non ci è mai uscita. Nonostante i tentativi nelle misure di contenimento della spesa pubblica, Roma è ancora sotto i riflettori. L’epicentro questa volta è la Spagna, ma non solo. La crisi di Madrid, come quella dell’Italia, è solo un segnale. Il timore è che ormai gli investitori stiano cominciando a trattare l’eurozona come la più grande bolla finanziaria mai nata.

Le bolle sono sempre esistite. Ogni tanto, in base ad aspettative molto spesso irrazionali, accade che un preciso asset si apprezza a tal punto che salta il banco. Gli investitori si rendono conto che ciò che hanno fra le mani è sopravvalutato e iniziano a vendere. Così è stato per i tulipani nel 1.600, quando un bulbo valeva anche 100.000 fiorini, mentre una tonnellata di burro costava un centinaio di fiorini. Così è stato per le azioni delle società legate a internet intorno agli anni Duemila. E così è stato anche per l’eurozona.

Il progetto originario di una moneta unica per i Paesi dell’Unione europea non è nato dal nulla. A forza di annessioni politiche, si è giunti a questa struttura. Poi, si è cercato di unire quanto più possibile dal punto di vista economico.

Infine, è arrivata la crisi del mercato immobiliare statunitense, che ha aperto la voragine legata ai mutui subprime. Un’Europa già indebolita dai semi di una crisi tanto effimera quanto profonda è stata investita da una tempesta di proporzioni epiche. La debolezza strutturale della zona euro era sotto gli occhi di tutti. Un sistema monetario in assenza di un sistema economico e politico altrettanto forte è destinato a disgregarsi. L’esempio di ciò si è avuto nel luglio di dodici mesi fa, quando fu iniziato il default controllato della Grecia. Un anno fa, il Consiglio europeo decideva di adottare il Private sector involvement (Psi), cioè la partecipazione dei creditori privati nella ristrutturazione del debito greco. Una misura pesante, onerosa, controversa e con effetti particolari, dato che nonostante l’haircut subito da banche e investitori, il debito pubblico ellenico rimane oltre i limiti imposti dal nuovo patto di stabilità europeo, il Fiscal compact.

Il cancelliere tedesco Angela Merkel, se vuole essere rieletta nella voto dell’autunno del 2013, non può permettersi scivoloni. La richiesta dei Paesi meno virtuosi è quella di una mutualizzazione del debito. In altre parole, gli eurobond. Risolvere un problema (non certo l’unico, sia chiaro) con il problema stesso. Ma il concetto secondo cui debito scaccia debito non ha senso. Anzi. L’eurobond sarebbe solo un trasferimento dei rischi. E questo non può più avvenire.

Gli errori che si sono fatti con il Trattato di Maastricht si stanno ripetendo con il Fiscal compact. I due principali parametri di controllo dei conti pubblici (deficit al 3% del Pil, debito al 60% del Pil), dopo essere stati infranti plurime volte durante la permanenza in vigore di Maastricht, sono già stati infranti con il nuovo assetto. La prima a farlo è stata la Spagna, che ha chiesto più tempo per il rientro del deficit. E via via, in una spirale legata al debito sovrano, altri Paesi, fra cui forse anche l’Italia, saranno destinati a fare lo stesso. La vigilanza della Commissione europea, che già ha assunto assai più poteri che in origine, può fare fino a un certo punto. Finché non ci sarà un bilancio unico europeo, ogni sforzo sarà vano.

Il tempo è quello che manca. Basti pensare che il fondo salva-Stati European stability mechanism (Esm), forte dei suoi 500 miliardi di euro di dotazione, doveva entrare in vigore nel luglio 2013 e invece è nato con un anno di anticipo. Infatti, è arrivata la fase peggiore della Grecia. Le continue bugie sui conti pubblici, il deficit che continuava ad aumentare, il lassismo nel portare avanti il piano di riforme strutturali che la troika (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Commissione Ue) ha chiesto al governo greco, l’immobilità politica, la corruzione e lo sperperio di denaro hanno costretto Bruxelles a correre. Se la ristrutturazione del debito greco, 206 miliardi di euro su 365 complessivi, è stata la più grande operazione di questo genere dai tempi del default dell’Argentina, il momento peggiore della crisi molto probabilmente deve ancora arrivare.

Spagna e Italia sono troppo grandi per essere salvate. Il fondo Esm non ha sufficienti risorse per garantire il rifinanziamento italiano e iberico nel caso questi due Paesi dovessero perdere l’accesso ai mercati obbligazionari. E non si può più contare sul predecessore dello Esm, lo European financial stability facility (Efsf), dato che i fondi per il bailout delle banche spagnole arriverà proprio dallo Efsf. E quindi?

E quindi non si possono che trovare delle soluzioni temporanee. È ciò che sta facendo la Bce. Prima con le due operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Long-Term refinancing operation, o Ltro), poi con il taglio del tasso di rifinanziamento, portato al minimo storico. Infine, con la sforbiciata al tasso d’interesse sui depositi overnight nel tentativo di defibrillare il sistema interbancario europeo, congelato per via della sfiducia degli operatori. Certo, come ha spiegato il presidente Mario Draghi, ci sono ancora spazi di manovra. Ma il processo che porta a una Bce sul modello della Federal Reserve americana, ovvero un sistema in cui la banca centrale è anche prestatore di ultima istanza, richiede modifiche ai trattati europei, nonché allo statuto della Bce stessa, che ha il solo mandato della salvaguardia della stabilità dei prezzi. Pensare che l’elettorato tedesco, che ha nel suo dna lo spettro di Weimar, possa accettare una rivoluzione del genere, è come pensare che possano essere accettati gli eurobond.

Non è questione di speculazione internazionale o di asse del male anglosassone. Chi pensa che dietro alla debolezza dell’eurozona ci sia un complotto mirato alla sua disgregazione non solo sbaglia, ma alimenta il problema di fondo. Il continuo scarico delle responsabilità foraggia la crisi, la nutre, la ingrandisce. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con l’economia, sa cosa è il vincolo di bilancio. Date le entrate e il prezzo dei beni, rappresenta quanto si può spendere senza dover andare in negativo.

Per spiegare cosa è successo all’eurozona si può pensare a una carta di credito. Se la mia carta ha un massimale mensile di 2.000 euro, il mio reddito è di 1.500 euro e le mie uscite mensili sono pari a 1.800 euro, è facile capire che il mio deficit viene infranto dopo pochi mesi. E la banca che mi ha garantito il fido, dopo il continuo sforamento del mio vincolo di bilancio, prima o poi chiederà indietro i soldi.

Negli ultimi vent’anni abbiamo coltivato i semi della più grande bolla possibile, passata inosservata. L’eurozona, in questa forma machiavellica e bizantina, era destinata a fallire. Troppe le disparità, troppi gli squilibri, troppi i rischi assunti. Se si pensa che l’unica entità che sta cercare di gestire i rischi attualmente presenti è la Banca centrale europea, si può comprendere quanto sia grave la situazione.

In un’eurozona senza certezza, l’unica sicurezza è che bisognerà fare di più. La Grecia doveva essere un caso «unico», come aveva sempre detto il predecessore di Mario Draghi alla Bce, Jean-Claude Trichet. Al salvataggio di Atene non dovevano seguirne altri. E invece sono arrivati quelli di Irlanda, Portogallo e Spagna, mascherato da sostegno finanziario alle banche. Eppure, come ha ripetuto anche pochi giorni fa il governatore della Banca di Francia, Christian Noyer, «bisogna rompere il vincolo fra banche e Stati». Un’ idea espressa dallo stesso Draghi.

Non bastano, tuttavia, gli annunci. Questa crisi non si può risolvere con nuovi veicoli finanziari (come lo Esm) o con nuovi strumenti di condivisione del debito pubblico. Essendo una crisi strutturale, occorre che la soluzione vada all’origine della questione. I leader europei si stanno chiedendo se è possibile salvare l’euro. E sbagliano. Dovrebbero invece chiedersi se esiste un’alternativa alla moneta unica e in che modo è possibile intraprendere quella strada. Partendo dal presupposto che un collasso dell’euro avrebbe costi sociali, economici e politici inimmaginabili, occorre capire fino a che punto si può prendere tempo prima che l’inevitabile arrivi. Perché la via che porta alla disgregazione della moneta unica la abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. In che misura?

La disparità fra i rendimenti dei bond di Germania, Olanda e Francia e quelli di Italia, Spagna e il resto del Club Med devono far riflettere. Nei fatti, l’eurozona è già divisa in due tronconi ben precisi. Uno forte, uno debole. O, come aveva argomentato un’analisi di Goldman Sachs di un anno fa, è nato un euro nord e uno euro sud. Questo pensano gli investitori, che invece di guardare al breve periodo, osservano il lungo e sono disposti a ottenere tassi negativi su qualsiasi asset che non faccia parte della parte debole della zona euro. La frammentazione è iniziata ancora prima che la politica se ne accorgesse. E il timore è che, ancora una volta, i mercati finanziari possano aver anticipato ciò che la politica ancora non ammette.  

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