«Davanti alle sentenze di un tribunale o davanti ad un atto legislativo non ci facciamo più tutta una serie di domande: è buono? È giusto? È equo? È corretto? Aiuterà a costruire una società o un mondo migliore? Queste un tempo erano le domande della politica anche se non c’erano facili risposte. Dobbiamo imparare a porcele di nuovo». È un passaggio di uno dei libri più dibattuti di questi ultimi anni, Ill fares the land di Tony Judt. Dalle nostre parti, si può dire, queste domande si pongono ma si può obiettare che lo si fa più per fare il tifo, che per discuterle nel merito. Solo cambiando il nostro vocabolario e tornando a porci una serie di domande “alte”, questo è uno dei messaggi del suo libro, la politica può tornare a giocare quel ruolo di amministrazione della vita e del bisogno che le dava il pensiero classico e di cui ora c’è più necessità che mai. Invece, anche davanti ai peggiori scandali finanziari degli ultimi anni che potrebbero permetterle di riacquistare la sua centralità, regna una curiosa forma di silenzio.
Partiamo dall’Italia. Non sappiamo se sia mai esistita la lettera in cui Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, tenendo all’oscuro le autorità di vigilanza, si impegnava a dare una dorata buonuscita al clan Ligresti in cambio di un via libera all’operazione Unipol-Fonsai. Così come non sappiamo se Carlo Cimbri di Unipol sapesse, se ora ci sia un rischio di sequestro delle quote, insomma stiamo ancora cercando di capire. Ma è chiaro il rischio che anche stavolta per Unipol possa finire come con Bnl, che alla fine sia costretta dalla magistratura a vendere la preda appena messa in saccoccia. Com’è chiaro che vedere i Ligresti rompere l’omertà del salotto buono per difendere i loro interessi è qualcosa che non si può solo registrare nelle cronache. Nessuno vuole del facile populismo dannoso per la qualità della democrazia. Ma la politica, visto che sono coinvolti anche i piccoli azionisti, avrebbe quantomeno lo spazio per dire anche solo una cosa generica del tipo «è una partita fra privati e non possiamo entrarci ma vigiliremo affinché il mercato e i piccoli azionisti vengano tutelati» e cercare così di essere garante del buon funzionamento al posto dei magistrati. Certo per farlo bisogna riuscire a credere ancora in una politica capace di farsi garante nel rispetto di tutte le regole.
Invece niente da Bersani, ma soprattutto niente da Alfano e niente da Di Pietro. Quanto a Monti, quando a marzo venne a Piazza Affari qualcosa lo disse. Parlando proprio di Mediobanca spiegò che «pensiamo abbia tutelato il bene esistente e abbia consentito la sopravvivenza un po’ forzata dell’italianità di alcune aziende, non sempre facendo l’interesse di lungo periodo». Per il resto la macchina del commento di cui vive la politica che inonda le mail e i social network di prese di posizione su tutto lo scibile, davanti alla partita in corso fra Mediobanca, la procura e i Ligresti, e prima ancora davanti a quella del salvataggio di Fonsai da parte di Unipol, tiene le labbra serrate come i bambini che rifiutano il pasto.
Si può volgarmente pensare che almeno in parte sia stata la precedente partita, quella Bnl-Unipol, quella dell’«abbiamo una banca», a rendere la politica afasica. Dopo essersi scotatti in quel modo, ora si preferisce stare un passo indietro. Oppure, più nobilmente, si può ritenere che questa afasia sia come quella degli antichi scettici che predicavano la sospensione del giudizio per via dell’inconoscibilità della realtà e che quindi sia ispirata dall’antica virtù politica della prudenza. Ma già di per sé nessuna delle due spiegazioni sembra convincente. Il nodo sembra più ampio e più specifico allo stesso tempo.
Perché questo silenzio, fra l’altro in un momento post-Occupy in cui le banche sono ancora più in viso del solito all’opinione pubblica e in cui la politica, almeno da questo punto di vista, avrebbe gioco facile a puntare i piedi, non è un fenomeno locale.Davanti a quanto sta emergendo nel Regno Unito e negli Usa nell’orrenda vicenda dello scandalo Libor la politica anglosassone sta reagendo in modo non molto diverso da quella italiana davanti allo scandalo Ligresti. Nel caso inglese il sospetto è che essa non si voglia esporre più di tanto perché teme che esca una mail da cui si capisce che non erano solo le autorità di vigilanza ad essere al corrente. Nella vicenda Barclays, ad esempio, da quanto emerge, pare che i laburisti quando erano al governo abbiano chiuso un occhio perché, fosse emersa la verità, avrebbero dovuto nazionalizzare anche questa banca. Certo il premier conservatore David Cameron si è detto indignato, ha annunciato una commissione di inchiesta, ma per ora non cerca l’affondo timoroso di perdere l’appoggio della City che per i Tories è santa.
Oltreceano la situazione è simile con alcune diversità. Il segretario del Tesoro Usa Tim Geithner ha detto in un’audizione parlamentare che informò le autorità britanniche dei suoi timori sul funzionamento di questo tasso interbancario già nel 2008, anche se l’informativa non fu resa pubblica. E lo stesso Geithner ha spiegato che le autorità Usa stanno considerando un ampio spettro di riforme e alternative nei metodi di fissazione dei tassi interbancari. Ma rispetto alla gravità di quanto sta emergendo, vuoi per la delicatezza del ruolo della Fed, vuoi perché sotto elezioni si vogliono evitare passi falsi, non si vede la politica cavalcare la tigre ma solo cercare di contenere i danni. Lasciamo perdere il candidato repubblicano Mitt Romney che è stato direttamente toccato dal caso nell’organizzazione del suo viaggio a Londra: il presidente del comitato d’onore per l’evento più caro, la cena con biglietti che costano fra i 50 e i 75mila dollari, era Bob Diamond, l’ex amministratore delegato di Barclays Bank, costretto alle dimissioni per il suo presunto ruolo proprio nello scandalo sulla manipolazione del Libor. Negli ultimi giorni il nome di Diamond è stato fatto sparire dagli inviti. Troppo imbarazzante.
E si capisce il perché: il valore degli asset prezzati in base al Libor cambia a seconda delle fonti fra i 350 e i 500 trillioni di dollari e la durata della manipolazione è circa 6 anni. Facendo un banalissimo conto della serva e ipotizzando che almeno la metà dei clienti ci abbia guadagnato, ma possiamo fare anche più della metà, la cifra che resta è in ogni caso di una dimensione tale da rendere Enron o WorldCom casi minori. La cautela di Obama è per alcuni versi comprensibile, e infatti non è manco ancora chiaro quanto voglia essere aggressivo nei confronti delle banche coinvolte. Solo che, con Wall Street che ha chiaramente appoggiato Romney, perché il presidente Usa non prende il coraggio di fare la voce grossa?
Insomma nel mondo inglese-americano un minimo di reazione si vede ma rispetto alla gravità dei fatti, rispetto a uno scandalo che coinvolge le principali banche, le autorità di vigilanza e un tasso da cui dipendono i mutui di milioni di persone e i valori di moltissimi asset, sembra stare un passo indietro, non sembra cercare di usare l’occasione per affermare la sua supremazia. In Italia invece il silenzio è assordante. Per Tony Golding (che dopo gli studi a Cambridge spese 24 anni nella City condensati nel bellissimo volume The City, inside the great expectation machine) negli ultimi vent’anni le economie europee si stavano americanizzando «non per via di una strategia deliberata ma semplicemente attraverso la costante ricerca di opportunità di investimenti azionari che caraterizza il modella capitalistico Usa». Solo che ora che tutto questo cade a pezzi nel peggior dei modi, la politica non riesce a incassare il suo dividendo.
Prudenza dopo essersi scottati in precedenza le dita, come nel caso Ligresti? Cautela perché sono coinvolte le autorità di controllo e forse non solo loro, come nel caso Libor? Probabilmente tutti questi fattori sono in gioco simultaneamente. Ma la ragione principale sembra quella per cui, in piena crisi del debito, la politica ha troppo bisogno delle banche per esporsi. Un esito paradossale per cui, al culmine di una crisi finanziaria pari o peggio a quella del ’29, la politica non riesce a riprendere il suo spazio. Reso ancora più paradossale dal fatto che, in molti casi, gli Stati si sono indebitati proprio per salvare le banche le quali si sono poi messe a scommettere contro quegli stessi Stati perché per salvarle gli è esploso in mano il debito sovrano. E ora molte banche, a forza di comprare titoli di Stato, hanno la pancia piena di asset che il mercato penalizza. Un abbraccio che diventa così un destino comune. Tutto ciò è preoccupante perché significa che dopo la sua abdicazione a govenare gli eventi, al culmine di una crisi che ha reso evidente tutte le manchevolezze del sistema finanzario, la politica si trova in una posizione per cui non solo non sa più fornire risposte, ma neanche fare domande.
Twitter: @jacopobarigazzi
Email: [email protected]