Maria Bashir: «Troppo presto il 2014 per lasciare l’Afghanistan»

Maria Bashir: «Troppo presto il 2014 per lasciare l’Afghanistan»

HERAT – Finita la stagione della raccolta dell’oppio, giunti a destinazione oltre confini i carichi di papavero dai quali verrà estratta eroina a tonnellate, si può tornare alla battaglia. Qualsiasi essa sia. È questo l’inquietante scenario afgano di fine giugno. L’aumento di attentati ai danni della coalizione internazionale e quello di reati comuni ai danni degli stessi afgani è dovuto anche al “rientro” dei criminali che, finora impegnati con il business della droga, possono tornare agli affari ordinari. È solo di alcuni giorni fa la notizia della decapitazione di una bimba al termine di un rapimento finito male. Proprio in una provincia, quella dell’Helmand, che concentra la più alta concentrazione di coltivazioni di oppio al mondo. Un caso non certo raro in un paese dove i sequestri sono uno dei principali capitoli di bilancio delle organizzazioni criminali. Numerosi sono poi gli attacchi che si intensificano ai danni di militari occidentali o polizia e forze armate locali: i veri nuovi obiettivi. E c’è da aspettarsi che la situazione possa addirittura peggiorare. Nonostante ciò, nelle occasioni ufficiali, la linea delle autorità è un’altra.

Per Isaf la missione è compiuta. I vertici afgani di esercito e polizia non perdono occasione per mostrarsi sicuri di sé. Certi di poter prendere autonomamente in mano i destini del Paese, contando su un aiuto logistico, economico e di dotazioni militari da parte della comunità internazionale che, nella fase di transizioni dei poteri, si avvicina spedita alla data di uscita dall’Afganistan nel 2014 annunciata nel vertice di Chicago a fine maggio. Una realtà che appare diversa se si parla con chi  guarda in faccia alla realtà dal basso. Vivendo quotidianamente grossi rischi personali nel contrastare tradizioni e ingiustizie di un “nuovo” Afghanistan ancora tutto da ricostruire. 

È sincera e netta nell’esporre la sua posizione a Linkiesta Maria Bashir. Personaggio simbolo, prima e ancora unica donna procuratore capo in Afghanistan e tra le 100 più influenti del globo nella classifica del Time. «Sono preoccupata – dice – per tutti noi e in particolare per le donne. Penso che sia troppo presto per lasciarci soli, le infrastrutture statali fondamentali non sono state ancora costruite. Non è prevedibile cosa accadrà. Spero che, come promesso a Chicago, la comunità internazione possa mantenere gli aiuti alla popolazione, l’unico modo per migliorare la vita dei cittadini». La situazione afgana è ancora molto complessa unidici anni dopo l’intervento occidentale: tra terrorismo, arretratezza culturale, reati comuni e il traffico droga.

Partiamo da qui signora Bashir. La droga è ancora un business fruttuoso, e la produzione e il traffico sono cresciuti dal 2001, quando sono stati sconfitti i Talebani. Il governo è in grado di contrastare questo fenomeno?
Il traffico di droga è fiorente per tre principali fattori. La mancanza di sicurezza nel paese; la carenza, se non impossibilità a presidiare i confini; lo sfruttamento che ne fanno i nostri vicini: Iran e Turkmenistan da un lato, Pakistan dall’altro. Questi Paesi non fanno nulla per contrastare il commercio illegale e si approfittano delle nostre difficoltà interne. Dal canto nostro, non siamo in grado, con le nostre forze in campo, di controllare o fermare la produzione di oppio che poi varca facilmente il confine dove le nostre forze di sicurezza, senza attrezzature adeguate, non possono far nulla. Un’altra causa è poi la crisi dell’economia delle famiglie e il tasso di disoccupazione. Senza aspettative, e con solo gli aiuti internazionali in favore delle popolazioni rurali, è difficile contrastare l’unica economia per migliaia di persone. E il nostro lavoro resta una sfida complicatissima.

Senza dimenticare i reati comuni che rendono asfissiante la vita per molti. Quale è il più frequente?
Abbiamo numerosi rapimenti. Spesso vengono sequestrati figli di afgani ricchi, in grado di pagare uno riscatto. L’insicurezza per loro è tanta. Facciamo il possibile. A volte le basiste dei sequestri sono anche le donne.

Con il male invisibile della corruzione, che tocca in Afganistan livelli da record…

Purtroppo in Afghanistan il livello di corruzione è troppo alto. Sfortunatamente la comunità internazionale e il governo non sono stati in grado di ottenere successi nella soluzione di questo problema avviando una lotta sistematica al fenomeno. Da quando sono qua, ho dovuto allontanare dal mio ufficio sette membri dello staff perché erano corrotti. Il guaio è che le persone, in diverse organizzazioni governative e in particolare qui nel mio ufficio, sono danneggiati da uno stipendio basso (un procuratore guadagna 200dollari al mese, mediamente quanto un poliziotto). Con un salario insufficiente è facile abbandonarsi alla corruzione. Con salari più alti sarebbe tutto più facile.

Signora Bashir, dopo 11 anni di intervento occidentale, qual è la condizione della donna in Afganistan. Attraversando la città di Herat si vede quanto la stragrande maggioranza delle donne indossi il burqa.
Purtroppo è così. Dobbiamo parlare agli uomini per far sì che incoraggino le loro donne ad aprire la mente e a uscire dal guscio. Dovremmo parlare con loro per migliorare la condizione della donna. Bisogna far capire che ci sono diritti per le donne, che la legge e l’islam riconoscono un loro ruolo nella società.

Insomma, che si può essere buoni musulmani e brave persone anche senza burqa
Certo, l’Islam non ha regole limitative per le donne. Per esempio non si è mai letto da nessuna parte che l’Islam imponga alle donne di coprirsi il volto o qualcosa del genere. Il vero problema è che gli uomini vogliono mantenere i loro privilegi e questo passa anche per la sottomissione della donna.

Cosa è cambiato, da quando ha preso possesso del suo ufficio?
Facciamo quel che è in nostro potere. Quando sono arrivata qui, nel 2004, lavoravano due donne. Adesso ci sono dodici procuratrici. Io sono ancora l’unico procuratore capo donna in Afganistan.

Ma in termini di risultati, è migliorato qualcosa in merito alla violenza sulle donne?
La nostra provincia è quella che maggiormente ha implementato le leggi in materia. Il nostro obiettivo è cercare di contenere un fenomeno che resta allarmante. In quasi un anno, da quando abbiamo aperto un reparto speciale all’interno del mio ufficio, abbiamo avuto buoni risultati. Se consideriamo che abbiamo investigato su 258 casi di violenza, possiamo dire di essere la prima provincia del Paese.

Di che cosa parliamo quando si dice “casi”?
Tra gli episodi che abbiamo investigato, spiccano sempre il suicidio, la pratica di darsi fuoco e il primo matrimonio sotto l’età legale. In ogni caso almeno il 70% dei reati sono commessi da mariti e parenti stretti.

Quale è il peggiore reato per lei?
Per me è il matrimonio sotto l’età di legge. Non sopporto che le ragazze non possano opporre resistenza all’imposizione dell’uomo. Non hanno diritto di opporsi a una scelta assurda di chi prova a separare i bambini dalla famiglia. Nelle aree rurali molti neanche sanno che questo è reato.

Il caso più eclatante?
Matrimoni a otto o nove anni, dove la legge impone almeno i 16. A otto anni il marito ne aveva 45 anni.

Chi racconta delle violenze, chi denuncia?
Fortunatamente in quest’area la conosenza del diritto e la percezione di potersi rivolgere a noi sta crescendo giorno dopo giorno. Le donne vengono qua da sole o con le loro famiglie, e raccontano tutto. Sono coraggiose e fanno questo per loro stesse. Ma capita anche che si rivolgano alla polizia. Con il loro “Woman Affairs”, seguono i casi, investigano, e poi le vittime vengono introdotte a questo ufficio.

Garantite un tipo di protezione?
La protezione è arrestare coloro i quali usano violenza contro di loro. Facciamo il nostro lavoro in accordo con la legge. Altro tipo di protezione non possiamo fornirne.

Quanto è difficile imporre la legge ordinaria in un paese dove spesso il diritto è a impronta di sharia e pastunvali?

Ogni area del Paese, ogni provincia, ha le sue differenze. A Herat mediamente le donne sono di mentalità più aperta, ma ci sono province molto più arretrate. Li c’è un vero abuso dell’Islam. Ma solo alcuni sono vicini ai talebani, per questo posso dire che il Pastunwali non è molto applicato, solo da pochi filo-talebani in aree rurali.

Signora Bashir, un ruolo come quello che riveste in Afghanistan è a dir poco “scomodo”, e lei è uno dei principali obbiettivi di attentati. Quanto è difficile svolgere la sua attività?

La sicurezza è ancora un problema. Si sa che un lavoro come questo, essere un avvocato che aiuta le donne, crea molte difficoltà. Mi piace il mio lavoro, la sicurezza non mi interessa, voglio lavorare per le donne e per aiutarle a migliorare la loro vita.

Noi in Italia abbiamo grandi esempi di magistrati che hanno sfidato la mafia pagando con la propria vita, e tanti che lo fanno quotidianamente. Minacce per lei ne arrivano tutti i giorni. Non ha paura?
Vivere con 23 body guard non è piacevole. Appena due anni fa un attentatore suicida è esploso accanto alla mia casa e sono rimasti feriti due uomini della scorta. Sono sotto pressione e ho paura per il lavoro che faccio. Ho notizie tutti i giorni di qualcuno che vuole uccidermi e ricevo lettere di minacce quotidianamente, so che in particolare in Pakistan c’è chi trama per uccidermi. Soprattutto perché è molto difficile qui per una donna essere procuratore, e dunque in grado di mandare un uomo in prigione con un solo ordine. Ma voglio che tutte le donne possano fare quel che vogliono come gli uomini. Ho tre figli: due maschi di 18 e 16 anni, e una femmina di 13, e spero in un futuro migliore per loro e tutti i bambini afgani. Lavoro per loro e voglio incoraggiarli a essere delle persone libere. 

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