Umberto Bossi si è arreso. «Il bambino è suo» dice alla fine del congresso federale di Assago, rivolgendosi a Roberto Maroni, fra le lacrime e i singhiozzi. Tra le musiche dei Carmina Burana, una folla che applaude e si commuove, con la tensione che se ne va una volta per tutte. Bossi cita la parabola della Bibbia di Re Salomone. Piange, fa fatica a finire il discorso. C’è Giuseppe Leoni, uno dei fondatori, che lo abbraccia, insieme con il governatore del Veneto Luca Zaia che trattiene a stento l’emozione. E Bobo gli si avvicina, gli stringe la mano, quasi per ringraziarlo di questo passaggio di consegne forse ancora più ufficiale del voto palese per alzata di mano che lo aveva nominato segretario federale pochi minuti prima. È l’unico momento in cui i due leader sono vicini. Prima non si erano nemmeno salutati.
Il bambino è la Lega Nord. La creatura di Bossi. Quella che ha fondato e condotto fino agli scandali del Tanzaniagate a inizio aprile. Quando le indagini di tre procure, Milano, Napoli e Reggio Calabria, hanno messo sotto scacco l’ex tesoriere Francesco Belsito. Il Senatùr, il fondatore, l’Umberto, lo statista di Gemonio, non ha voluto dividere la Lega. Ha fatto come Re Salomone, quando due donne «della malavita» – si legge nelle sacre scritture – gli chiesero di risolvere la disputa sull’unico bambino che era in vita dopo la notte. «Datelo a lei e non uccidetelo, perché quella è sua madre», si legge nell’Antico Testamento, quando Salomone, dopo aver minacciato di tagliarlo in due, accolse le richieste di quella che pur di non vederlo morto lo avrebbe ceduto all’altra. Ma il Senatùr mischia le cose. Le cambia. È un po’ mamma e un po’ giudice. Non è chiaro. «Ha sempre raccontato queste storie», avverte un fedelissimo di Bobo.
Bossi spiega così la sua scelta di non dividersi: «Era più importante che vivesse l’ideale, il sogno che deve realizzarsi: dovevamo impedire che Roma distruggesse la Lega». È il momento cruciale dell’assise padana. Non se lo aspettava nessuno. Spiazza tutti l’Umberto. «Il Cassano della politica», commenta un cronista. Del resto, dopo il discorso che aveva fatto in mattinata, i fedeli di Maroni credevano che volesse alzare ancora di più lo scontro. E invece no. Le parole sui «servizi segreti che dovevano avvertirci sul fatto che il nostro amministratore era della ndrangheta e che hanno aspettato per distruggerci» – chiaro riferimento a quando Maroni era ministro dell’Interno – passano in secondo piano. Anche «chi con la scopa in mano chiedeva pulizia e poi ha il suv pagato dalla Lega», sembra un buffetto rispetto a questo finale biblico dell’era Bossi.
C’è da dire – e qualcuno lo sottolinea – che per la prima volta forse il «Capo» ha deciso di gettare la spugna. Questa volta è lontano dalle stanze di Gemonio, dove la moglie Manuela Marrone e Rosi Mauro ogni sera lo accolgono a braccia aperte. Al termine del suo primo intervento si chiude in stanza con Giuseppe Leoni, Francesco Speroni, Roberto Cota e Roberto Castelli. Parla fitto con i fedelissimi. Mentre fuori le televisioni lo aspettano perché circola voce che voglia andarsene via, senza sentire il discorso di incoronazione di Maroni. E invece resta. Glielo dicono: «Si può trattare, guarda i cartelloni che ci sono Il Capo sei tu». A dire la verità sono un paio, uno da Busto Arsizio, il paese di Marco Reguzzoni.
Ma comunque Bossi ci prova fino all’ultimo a chiedere quella «quota del 20% per i suoi fedelissimi», così da poterli eleggere in parlamento. Per poter scegliere chi può fare sindaco e chi no, per poter scegliere chi decide e chi no. Vuole contare ancora il Senatùr. Vuole decidere ancora cosa è meglio per il «suo bambino». È l’ultimo assalto alla segreteria, dopo che persino Roberto Calderoli ha commesso un lapsus durante l’intervento, sostenendo che «Bossi sarà segretario federale a vita della Lega».
Si parla fitto dietro il palco. Una voce arriva alla triumvira Manuela Dal Lago che corre da Maroni e gli dice: «Umberto vuole parlarti». Ma Bobo è categorico: «No, oggi parla solo il congresso. Decide solo il congresso». È la fine di Bossi. Il primo no di Maroni segretario alle richieste del Senatùr. È la fine della Lega del cerchio magico. La fine – almeno per un po’ – delle «beghe interne». La fine del «Maroni traditore». La fine di tutto quello che c’e’ stato in questi mesi. Si riparte con la stessa Lega, con l’articolo 1 per l’Indipendenza («Cazzate chi dice che voglio cambiarlo» dice Maroni). Per capirlo basta guardare i tanti che un tempo voltavano le spalle a Maroni avvicinarsi al nuovo segretario per stringergli la mano dopo la nomina. C’è Carolina Lussana, c’è Francesca Martini, c’è lo stesso Cota, solito «democristiano sognante» abbozzano i barbari sognanti, e con lui anche Federico Bricolo.
A fare più bella figura – spiegano i maroniti – sono quelli che ci hanno messo la faccia durante la votazione. Come Paola Goisis che si sbraccia per mostrare di essere in dissenso sul voto palese per acclamazione. O Giacomo Chiappori e Giovanni Torri: hanno votato no e ci sono stati. Marco Reguzzoni, ex capogruppo alla Camera, cerchiomagista, si accredita, gira qualche minuto, ma poi se ne va: aveva fatto lo stesso durante il consiglio federale della scorsa settimana senza votare la mozione per il candidato unico Maroni. Qualcosa del cerchio magico resta. Nel consiglio federale ci va Marco Desiderati, da Lesmo, detto «sottiletta». Mentre dal Veneto si segnala il boom di preferenze di Massimo Bitonci, anti Tosi per eccellenza. Ma il resto è tutto targato Maroni.
Il Senatùr ha preso la parola per la prima volta poco prima di mezzogiorno. Ha iniziato attaccando indirettamente Tosi, per «quegli imbecilli che vanno in giro con il tricolore». Poi le bordate contro i servizi segreti, il ricordo del complotto, quindi il tentativo di cambiare prima della fine il nuovo statuto della Lega Nord. «Vado a leggermelo», chiude, dicendo una mezza battuta a Zaia che gli sta alle spalle. «Mi stai sempre dietro, inizio a preoccuparmi». Bossi è lucido. La battuta è una critica al governatore del Veneto, che nel suo discorso aveva detto alla gente del nord «di non fare distinzioni di sesso, o religione o colore della pelle».
Lo statista di Gemonio si allontana. Tra i corridoi di Assago, tra i barbari sognanti, c’è stupore. Un fidato di Maroni avverte. «Va male, Bossi vuole cambiare lo statuto». C’è ansia. Bossi si rinchiude in stanza con i suoi fedelissimi, come detto, ma non basta. Finisce così il congresso leghista. Con l’incognita per il futuro, con la promessa di Bobo di lavorare sin da questa «sera senza guardare la partita». Con gli stati generali del nord a fine luglio e una Pontida che si svolgerà probabilmente a settembre, al posto di Venezia.
Con la certezza dell’articolo 1, sulla Padania libera e indipendente. Con la certezza che il nemico è il governo di Monti. «Il vero nemico della Padania», anche se c’è chi non applaude tra gli spalti gremiti (8mila le presenze secondo gli organizzatori), quando Bobo lo dice. «Va bene così, ora andiamo avanti, cambiamo pagina», dicono in tanti. «La pulizia continuerà», avverte ancora Maroni. Non si sa ancora se i leghisti non si candideranno a Roma. Certo, il nuovo segretario è stato categorico. «Via dalle poltrone romane, basta posti in Rai e chissenefrega delle alleanze».
Di certo, c’è che il più acclamato oggi è stato Luca Zaia, presidente del congresso e osannato in lungo e in largo. Il nuovo segretario ha incoronato Matteo Salvini come suo delfino, ma questa è un’altra storia. Ci sarà tempo per discuterne. La Lega è tornata, vedremo se riuscirà a sopravvivere. «Siamo immortali, come la nostra missione della Padania libera e indipendente», chiude Maroni. La traversata nel deserto continua.