“Salviamo il mercato dai capitalisti”

“Salviamo il mercato dai capitalisti”

(Pubblichiamo la prefazione di “Come salvare il mercato dal capitalismo” di Massimo Amato e Luca Fantacci, pubblicato in questi giorni da Donzelli editore)

La finanza ha una funzione vitale: dare respiro e slancio all’economia. Oggi, però, predomina una forma di finanza, quella dei mercati finanziari, che non svolge tale funzione in maniera appropriata. Il dominio dei mercati finanziari è politicamente illegittimo, economicamente dannoso, umanamente aberrante. Bisogna venirne fuori. E alcuni germi di cambiamento stanno già emergendo. Questo saggio intende contribuire a pensare e progettare un’altra finanza.

A dispetto della crisi, che è innanzi tutto la loro crisi, i mercati finanziari hanno acquistato un potere senza precedenti. Dettano legge, letteralmente: impongono politiche economiche agli Stati, depongono governi che giudicano inadempienti, abrogano diritti che vedono come intralci, scardinano patti sociali, ridisegnano equilibri e alleanze internazionali. È un fatto. C’è chi lo considera anche un bene, una forma di disciplina, la «market discipline», che pone sotto la tutela dei mercati i governi irresponsabili. C’è addirittura chi lo vede come «senato virtuale», come un primo passo verso una democrazia planetaria: un dollaro, un voto. Tuttavia, almeno finché non avremo sancito fra i diritti universali dell’uomo quello di essere identificato con il proprio conto in banca, il governo dei mercati è un governo illegittimo. Lungi dall’essere una nuova forma di democrazia, è una nuova forma di oppressione: il dominio dei creditori sui debitori. In altre epoche, che ci lusinghiamo di considerare primitive e sorpassate, l’autorità politica aveva il compito di riequilibrare il rapporto fra creditori e debitori. Oggi si accontenta di sancire lo squilibrio. Dovremmo averlo imparato, ormai, noi che viviamo in un paese a sovranità limitata, posto sotto la tutela dei propri creditori. Forse, però, non lo abbiamo ancora abbastanza chiaro, se siamo tanto pronti a chiedere prestiti alla Cina, come se questo potesse davvero essere un modo per salvare l’Europa.

In un mondo in debito di leadership, e ancor più in debito di idee su come regolare i rapporti fra debitori e creditori, sono i creditori a comandare, ai debitori e ai «leader». È un fatto, certo, ma non possiamo tuttavia accettarlo come una necessità ineluttabile. Dobbiamo invece imparare a spiegarcelo. E questo potrebbe portarci a scoprire che la sua supposta necessità ammette invece alternative. Eccome.

Finché non si fa chiarezza concettuale, non ha senso prendersela con il creditore di turno, che sia impersonato da una cancelliera tedesca, da un premier cinese o da banchieri internazionali. Perché ogni creditore è anche debitore. Il tratto davvero inedito del nuovo regime che occorre vedere e comprendere bene è, piuttosto, il suo carattere impersonale, anonimo, reticolare, insieme diffuso e concentrato. Certo, ci sono le grandi banche che fanno il mercato, ma c’è anche la pretesa di tutti e di ciascuno di vedersi riconoscere, come un diritto acquisito, la rendita sui risparmi. Ecco il nuovo «popolo» che esercita la propria autorità attraverso i mercati finanziari globali: il popolo dei creditori senza volto e senza responsabilità. È lui che regge le sorti del mondo. E lo fa in maniera dispotica, distribuendo premi e imponendo sacrifici.

Per alcuni, questo dispotismo non è un problema. A loro modo di vedere, i mercati finanziari non avrebbero bisogno di altra legittimazione che quella derivante dalla loro efficacia performativa: i mercati finanziari sono lo strumento ottimale per l’allocazione efficiente delle risorse. Pazienza se talvolta sono un po’ crudeli, l’importante è che funzionino.

La crisi, tuttavia, ha mostrato anche un secondo fatto: i mercati finanziari che governano il mondo lo fanno male. La finanza egemone presidia ogni ambito della vita associata, salvo quello che propriamente le compete (come la scienza economica egemone, del resto, che pretende di occuparsi di qualunque questione, forse proprio per dissimulare la sua incapacità di risolvere le questioni strettamente economiche). I mercati finanziari oggi fanno tutto, tranne che finanziare. Giocano, si dice. Ma il gioco che fanno non è innocente, giacché può impedire e, di fatto, oggi impedisce ad altri di fare il loro lavoro. Se la finanza non finanzia, le imprese non possono intraprendere e i lavoratori non possono lavorare. Ecco la dissimmetria che la crisi ha reso evidente:mentre la finanza può crescere anche senza un corrispondente aumento nella produzione di beni e servizi, non è vero il contrario – l’economia reale non può crescere senza il sostegno della finanza. La resistibile ascesa al potere dei mercati finanziari è andata di pari passo con il loro allontanamento dalle attività economiche che sarebbero chiamati a servire.

La crisi ha rivelato una scollatura fra economia e finanza. Ma non l’ha creata. Semmai il contrario: è la scollatura, per anni rimossa e negata, fra economia e finanza che ha provocato la crisi finanziaria e poi la crisi dell’economia reale. Per questo, tutti gli sforzi volti a risolvere la crisi economica senza mettere in discussione il ruolo dei mercati finanziari sono mal indirizzati e sono destinati a fallire.

Liberatasi dal servizio all’economia, la finanza ha usato il proprio potere per imporre i suoi diktat ai governi. Bisogna tuttavia dirlo con estrema chiarezza: la finanza ha potuto usurpare lo spazio della politica e asservire l’economia reale solo perché l’ideologia del mercato ha occupato lo spazio della finanza. Frutto di questa ideologia che nessuno, da trent’anni, ha saputo contrastare adeguatamente, il mercato finanziario in quanto tale è un problema. È un problema economico, politico e, infine, umano. È un problema perché ha preteso di fare mercato di una relazione sociale e umana fondamentale, quella fra debitore e creditore. Se solo la poniamo così, l’assurdità del proposito emerge da sola. Occorre dunque una riforma della finanza che le tolga lo spazio usurpato e la riannodi al compito mancato. Togliere alla finanza la forma del mercato, significa rimetterla al servizio dell’economia di mercato. E questo è un compito politico. È un compito preliminare, fondamentale e prioritario affinché la dimensione della politica possa riguadagnare il suo spazio di libertà e di autorevolezza e liberarsi dal ricatto dell’ideologia.

La «fine della storia» proclamata con toni trionfalistici dalla doxa neoliberale alla caduta del Muro, non ha fatto bene i suoi conti. Aveva proclamato la fine di tutte le ideologie, ma, in verità, ne era rimasta una. È l’ideologia del capitalismo, nella forma specifica di un’attribuzione fideistica di tutta la razionalità economica ai mercati finanziari. La crisi ne rivela ora l’infondatezza. Perfino uno dei suoi più strenui sostenitori, Alan Greenspan, ha dovuto riconoscerne la débâcle in una memorabile audizione al Congresso americano.

Vale la pena di riportare per esteso alcune battute dell’incalzante interrogatorio a Greenspan del presidente della Commissione, senatore Waxman:

Presidente WAXMAN: Dott. Greenspan, […] lei aveva un’ideologia. [Cito] una sua dichiarazione: «io ho un’ideologia. Il mio giudizio è che mercati liberi e competitivi sono di gran lunga il modo migliore per organizzare le economie. Abbiamo provato con la regolazione, ma nessuna delle sue implementazioni ha funzionato in maniera convincente». Fin qui la sua citazione. Aveva l’autorità per impedire le pratiche di prestito irresponsabili che hanno condotto alla crisi dei subprime. Molti le avevano consigliato di farlo. Ora, la nostra intera economia ne sta pagando il prezzo. Ritiene cha la sua ideologia l’abbia spinta a prendere decisioni che vorrebbe non aver preso? GREENSPAN: L’ideologia è una struttura concettuale che orienta il modo in cui la gente ha a che fare con la realtà. Tutti ne hanno una. Bisogna averne una. Per esistere, si ha bisogno di un’ideologia. La questione è se essa sia esatta oppure no. Ciò che le sto dicendo è che, sì, nella mia ho trovato un’imperfezione; non so quanto ciò sia significativo o permanente, ma la cosa mi ha davvero affranto. Ma, se mi permette, vorrei finire di rispondere alla domanda [precedente]… Presidente WAXMAN: Ha trovato un’imperfezione? GREENSPAN: Ho trovato un’imperfezione nel modello che percepivo come la struttura cruciale che definisce il modo in cui il mondo funziona, per così dire. Presidente WAXMAN: Cioè, lei ha trovato che la sua visione del mondo, la sua ideologia, non era giusta, che non funzionava. GREENSPAN: Precisamente. Ecco perché sono così scioccato: perché per quarant’anni ho potuto operare con forti prove empiriche del fatto che stava funzionando eccezionalmente bene. Ma, mi consenta, se posso… Presidente WAXMAN: Il problema è che il tempo a sua disposizione è terminato.

Più che la Fine della storia annunciata trionfalmente da Francis Fukuyama, sembra il Finale di partita di Samuel Beckett. La fine di un mondo. Invece, negli ultimi cinque anni abbiamo assistito a una rinascita dei mercati finanziari, se non della fede nella loro infallibilità. Ecco il paradosso di questi ultimi tempi: sebbene i loro danni siano sempre più evidenti e la loro utilità sempre più dubbia, i mercati finanziari continuano a esercitare la loro egemonia. Anzi, l’hanno perfino rafforzata. L’ideologia traballa, ma il regime che ha contribuito a instaurare si difende, come spesso capita ai regimi in decadenza, con una ferocia che gli viene dall’incapacità di comprendere la fine del suo stesso gioco. I mercati finanziari continuano a cercare di dettar legge. E tuttavia, come si fa, in tutta onestà, a pensare di uscire dalla crisi senza mettere in discussione una delle sue cause più profonde, ossia proprio questa pretesa di dettar legge?

Bisogna pensare al dopo crisi, e bisogna innanzitutto far sì che la crisi finisca. Siccome la storia insegna che le crisi non finiscono da sé, e che il modo in cui finiscono non è sempre buono, per uscire dalla crisi senza tornare indietro, o peggio saltare nel vuoto, e senza rinunciare ai reali vantaggi della globalizzazione, bisogna allora imparare a fare distinzioni nuove, improntate alla ragionevolezza e non all’ideologia.

Innanzitutto, bisogna distinguere fra mercati dei beni, che dovrebbero essere quanto più liberi e integrati ed estesi, e mercati finanziari, che non dovrebbero nemmeno esistere. Nella misura in cui storicamente il capitalismo è un sistema economico connotato proprio dall’esistenza dei mercati finanziari, si può, e forse si deve, prendere le distanze dal capitalismo per andare in direzione di un mercato davvero libero. Economia di mercato e capitalismo non sono affatto sinonimi. A ben vedere, sono anzi incompatibili. Il capitalismo è un’economia di mercato con un mercato di troppo: il mercato della moneta e del credito. Un’alternativa alla situazione attuale è dunque pensabile senza che essa prenda la forma di una nostalgia.

Perché, allora, non ci si pensa? Che cosa lo impedisce? Che cosa impedisce di pensare un nuovo patto fra Stato, mercato e finanza? Per dirla con Keynes: il feticcio della liquidità. La liquidità è ciò che Keynes, nel capitolo 12 della Teoria generale, individua come carattere distintivo dei mercati finanziari e che egli definisce senza mezzi termini un «feticcio antisociale». Su questo feticcio si è costruito un patto ideologico fra Stato e mercato, ai danni di tutti, e soprattutto della società nel suo insieme.

La liquidità è un Giano bifronte. Da una parte, è il carattere del credito, nella misura in cui può essere comprato e venduto su un mercato, il mercato finanziario, come quel luogo dove si investe senza responsabilità e tutti ci guadagnano (luogo di una «libertà adolescenziale», come forse direbbe Mauro Magatti). D’altra parte la liquidità è anche il carattere eminente della moneta capitalistica, nella misura in cui è una moneta che può essere trattenuta indefinitamente, come forma suprema della ricchezza, come rifugio sicuro in tempi di incertezza, quando non ci si può più fidare di nessuno.

Su questo duplice assunto feticistico si è costruito un sistema perpetuamente oscillante fra il miraggio della comunione incondizionata e il rifugio del solipsismo più assoluto. Finché ha funzionato, ha dato l’illusione di un paradiso artificiale fatto non solo di benessere materiale ma anche di uguaglianza. Quando è entrato in crisi, ha precipitato tutti in un inferno in cui, quanto più ciascuno pensa a salvarsi, tanto più collettivamente ci si perde.

Vi è tuttavia una costante, al di là delle oscillazioni: questo sistema ha provato a trasformarci tutti in rentier. La rendita ha compresso salari e profitti. L’irrigidimento del capitale in capitale finanziario, alla ricerca della certezza dei propri rendimenti, ha richiesto la flessibilizzazione del lavoro. Da qui il carattere odioso della nuova ricchezza, giacché si tratta di una ricchezza immeritata. Da qui anche la disuguaglianza crescente nella distribuzione del reddito. E la crescita ipertrofica dell’indebitamento per compensare la mancanza di reddito. E così via, in un circolo vizioso.

La finanza ha usurpato lo spazio della politica perché il mercato ha occupato lo spazio della finanza. Il liberalismo aveva tradizionalmente difeso il mercato dalla politica, la tradizione democratica ha difeso la politica dal mercato. Nessuno, in questi anni, si è preoccupato di difendere la finanza dal mercato, e l’economia di mercato dal capitalismo.

Invece vale la pena dirlo: la finanza, propriamente intesa, è sociale. Essa ha a che fare con la relazione fra debitore e creditore. Per questo motivo, mettere in discussione i mercati finanziari non significa affatto autorizzare la criminalizzazione incondizionata delle banche e delle borse. Per quanto psicologicamente comprensibile in momenti di grande sofferenza sociale, questo modo di procedere non va alla ricerca delle cause, e nemmeno di tutte le colpe. Si accontenta di capri espiatori. A costo di apparire impopolari, dobbiamo dirlo nella maniera più semplice: il colpevole non è «qualcun altro», giacché i mercati finanziari siamo tutti noi, nella misura in cui condividiamo, socialmente e individualmente, i presupposti antisociali del loro funzionamento. In questo odioso regime dei creditori siamo tutti implicati. Innanzitutto, perché siamo tutti creditori: basta avere un conto in banca per contribuire a creare quella pressione sul debitore che può diventare intollerabile. Ma soprattutto, e più profondamente, perché anche chi non investe in borsa, talvolta perfino chi protesta contro lo strapotere di Wall Street, difficilmente mette in discussione ciò su cui i mercati finanziari si fondano: il dogma della liquidità. Ossia l’idea, apparentemente naturale, secondo cui il denaro contante (la liquidità, appunto) è la forma più sicura di risparmio e, di conseguenza, si può accettare di privarsene solo in cambio di un investimento che sia ugualmente liquido o che frutti un interesse adeguato. Detto altrimenti, questo è il credo generalizzato a cui tutti implicitamente ci atteniamo: la moneta è il sommo bene, e deve generare interesse nella misura in cui è data a credito. Chi accumula denaro, si aspetta che conservi il suo valore. Chi lo cede in prestito, si aspetta di riceverlo aumentato. Lo dà per scontato. E in effetti è scontato, letteralmente, in termini contabili. Così opera il dogma trinitario della liquidità: moneta-credito-interesse, uni e trini, inseparabili. Chi oggi lo mette in discussione? Eppure è proprio su questo assunto indiscusso che si fonda il potere dei mercati finanziari: l’ormai proverbiale avidità degli operatori di borsa sarebbe innocua e impotente, se non avesse questa poderosa leva su cui esercitarsi.

Non solo. Indipendentemente dai mercati finanziari, l’idea che la moneta sia ricchezza e che il fatto stesso di prestarla meriti di essere premiato è la radice di un male endemico, sociale e insieme umano. Chiamatela come vi pare. Fino a un paio di secoli fa si chiamava usura. Poi gli economisti classici l’hanno chiamata rendita. E l’hanno aspramente criticata. Oggi si chiama tasso d’interesse. In ogni caso, si tratta di un reddito che è ottenuto senza lavorare e senza assumere rischi imprenditoriali e che, perciò, si distingue sia dal salario del lavoratore sia dal profitto dell’imprenditore.

Ora, sarà anche banale ricordarlo, ma di questi tempi è meglio cercare di essere semplici: se da qualche parte si guadagna senza lavorare, da qualche altra parte si lavora senza guadagnare. Per questo la rendita è strutturalmente intollerabile. È, come direbbe Aristotele, odiosa – che sia concentrata nelle mani di pochi redditieri o che sia «democraticamente » distribuita a tutti. Odiosa innanzitutto per chi la paga, ossia per ciascuno di noi in quanto debitore: perché costituisce un prelievo forzoso, una tassa, che può assumere un peso insopportabile, fino ad acquistare la forza di un ricatto politico ed economico (come osservò, un giorno, Alan Greenspan, «un americano indebitato è un americano che non sciopera»). Più in generale, odiosa per la società nel suo complesso: perché accentua la disuguaglianza nella distribuzione del reddito e toglie continuamente linfa alle parti vive del sistema economico, al lavoro e all’impresa, alimentando la sterile accumulazione. Da ultimo, odiosa per chi la riceve, ossia per ciascuno di noi in quanto creditore: perché culla tutti quanti nell’illusione che si possa vivere senza lavorare, senza assumere rischi, e perfino senza desiderare alcunché di definito, ma soltanto denaro, fino a sacrificargli ogni altra cosa, nell’ossessione autodistruttiva di liquidare tutto. La versione moderna della maledizione di Mida.

Si può comprendere l’indignazione di chi in questi ultimi mesi è sceso in piazza chiedendo «meno borsa, più vita ». E infatti la comprendiamo. Ma indignarsi non basta. Quanto più si vuole prendere realmente le distanze dall’attuale sistema finanziario, tanto più bisogna saper pensare un sistema alternativo che sia anche realizzabile. Perché un fatto importante resta, e non deve essere sottovalutato: se la vita economica non ha bisogno delle borse così come le conosciamo, gli uomini hanno tuttavia un bisogno vitale di dare credito e di riceverlo. Si può fare benissimo a meno dei mercati finanziari, ma non si può fare a meno della finanza. La finanza, propriamente intesa, è lo spazio della relazione fra debitore e creditore. Uno spazio dove una persona può dar credito a una promessa (pagherò), poiché chi la fa è tenuto responsabilmente a onorarla (pagando) e dove entrambi affrontano assieme, solidalmente, il rischio che, per evenienze imprevedibili e indipendenti dalla loro volontà, il pagamento sia messo a repentaglio e debba essere rinegoziato. Dove si dà questo spazio, l’economia respira, e non accade che, semplicemente per mancanza di denaro, uno scambio non si realizzi, un uomo non lavori o una nuova impresa produttiva non abbia inizio.

Dire no ai mercati finanziari non significa rinunciare alla finanza. Al contrario. Dire no in maniera costruttiva potrebbe voler dire avere finalmente una finanza all’altezza del suo compito. Sui mercati finanziari, il debito è un titolo negoziabile; nell’altra finanza, il debito è un’obbligazione da onorare. Sui mercati finanziari, il regolamento di tutti i conti è costantemente rinviato, salvo poi concretizzarsi inaspettatamente nella crisi; nell’altra finanza, debitore e creditore concorrono a rendere possibile, volta per volta, il regolamento di ciascun conto. I mercati finanziari sono fondati sulla liquidità; l’altra finanza è fondata sulla responsabilità. Sui mercati finanziari si compete per piazzare fondi o per ritirarli; nell’altra finanza si coopera per rendere possibile l’anticipazione e il pagamento. Nei mercati finanziari il rischio è sistemico e la crisi endemica; nell’altra finanza, può fallire un’impresa, ma non il sistema.

Infine, dire no ai mercati finanziari non significa affatto rinunciare al mercato. Significa semplicemente rinunciare a fare mercato di ciò che merce non è, ossia della moneta e del credito. Significa avere finalmente per le vere merci un mercato in cui domanda e offerta s’incontrino davvero e senza distorsioni. Le oscillazioni violente dei prezzi delle materie prime che hanno accompagnato la crisi mostrano quanto i mercati delle merci possano essere alterati nel loro funzionamento dai mercati finanziari. Bisogna porre argini ai mercati finanziari se si vuole un mercato di libera concorrenza, opportunamente regolato e delimitato, capace di preservare la libertà su cui si fonda.

Porre limiti al mercato è compito politico. Dove deve essere posto il limite? Fra ciò che è propriamente merce e ciò che non lo è. A cominciare dal credito. Il credito non è una merce ma una relazione. Se il mercato si estende al credito, non c’è più nessun argine, e le dighe prima o poi crollano. O si comincia a sottrarre il credito al mercato, oppure la regolazione e ancor più la democratizzazione della globalizzazione rischiano di restare pure aspirazioni velleitarie.

Che cosa significa porre limiti al mercato del credito? Alcune misure sono già oggetto di considerazione e attendono solo di essere attuate e comprese in una visione unitaria e organica: possono prendere la forma di tasse sulle transazioni finanziarie, di aumenti delle imposte sulle rendite finanziarie, di imposte sulle successioni e sui patrimoni, di una distinzione normativa fra banche commerciali e banche di investimento, di limitazioni alla contabilità al fair value, di una rivalutazione della tradizione della finanza e della banca cooperativa.

Tuttavia, non bisogna pensare soltanto di limitare la finanza di mercato. È possibile e auspicabile anche inventare forme nuove. Pensare un’alternativa significa pensare una finanza alternativa. Passare da una finanza di mercato a una finanza per il mercato.

La finanza deve assolvere due compiti essenziali: finanziare gli scambi e finanziare gli investimenti. Nessuno dei due compiti richiede il mercato del credito o il prestito a interesse. Il finanziamento degli scambi può avvenire attraverso sistemi di compensazione (improntati non alla crescita indefinita delle operazioni finanziarie, ma all’equilibrio degli scambi). Il finanziamento degli investimenti e dell’innovazione può avvenire attraverso forme di compartecipazione alle perdite e ai profitti (all’interno dei quali la crescita non è obbligata, ma semplicemente possibile). Entrambe queste forme finanziarie consentono di tenere la finanza strettamente legata all’attività economica reale. Entrambe sono forme di finanza cooperativa.

Delimitare e riformare la finanza sono compiti politici urgenti. La posta in gioco non è solo la salute del sistema economico, ma la ricostituzione e la preservazione di spazi politici e di democrazia.

La riforma della finanza si può e si deve fare su tutti i livelli: internazionale, europeo, nazionale e locale. Può partire anche dal basso, secondo un principio di sussidiarietà e nello spirito della nostra migliore tradizione cooperativa.

Sarebbe ancora più bello se una riforma della finanza in tutta Europa partisse non solo da più località e ma anche da più piani, non solo locali. L’Europa ha infatti bisogno di trovare essa stessa nuove forme di cooperazione, in particolare attraverso una camera di compensazione per riassorbire gli squilibri che si sono accumulati negli ultimi dieci anni, sul modello dell’Unione Europea dei Pagamenti, che ha consentito la ripresa postbellica e i miracoli economici italiano e tedesco negli anni cinquanta. Esperimenti locali si stanno cominciando a fare in tutta Europa, e non contro l’euro, ma per rafforzare l’unione monetaria. Stiamo lavorando, insieme ai nostri collaboratori, alla messa in opera di un sistema di moneta e finanza locale in Francia, a Nantes, una città governata da vent’anni dal Partito socialista, sotto la guida di Jean-Marc Ayrault. Come lo stesso Ayrault non ha mai mancato di sottolineare nelle sue uscite pubbliche, in essa non c’è nulla di localistico. È un’iniziativa locale che, proprio per il modo in cui è locale, è di respiro europeo.

Infine, sarebbe bello pensare che l’Italia, che ha riacquistato una voce in Europa, si facesse promotrice di un rinnovamento, in particolare della finanza, come è accaduto nei momenti più felici della sua storia.

Nello spirito delle nostre precedenti pubblicazioni, questo saggio è concepito come un contributo a un dibattito da aprire e da mantenere aperto, e non certo come un ricettario conchiuso da opporre dogmaticamente alla vecchia frusta bolsa dogmatica neoliberale.

Il primo passo per uscire dalla crisi consiste nella presa di distanza dalla fascinazione delle formule dottrinarie. La dogmatica neoliberale e la propaganda interessata che essa ha generato negli ultimi trent’anni nascondono una debolezza: il principio da esse eretto a dogma, la liquidità, non è a ben vedere un principio, ma un’illusione, e una trappola.

L’uscita dalla crisi innanzitutto ideologica di questi anni richiede l’individuazione di un principio sul quale costruire nuove forme di finanza, e al quale ricondurre forme finanziarie già esistenti e fino a oggi marginalizzate. È a partire dall’evidenza guadagnata di una finanza non di mercato ma per il mercato che sarà possibile individuare con una certa sistematicità gli strumenti specifici da mettere a punto e i piani differenziati sui quali imparare a usarli.

Ciò che già si fa mostra a chi lo voglia vedere che l’altra finanza di cui parliamo, non di mercato ma per il mercato, non è un’utopia. È possibile salvare il mercato dal capitalismo e la scienza economica dall’ideologia. Esistono numerosi esempi, antichi e moderni, di una finanza che non ha bisogno dei mercati finanziari: dalle fiere dei cambi rinascimentali alle nuove forme di corporate barter; dalle tradizionali banche mutualistiche e cooperative ai più recenti sistemi di scambio locale. Esistono numerosi esempi, antichi e moderni, di finanza che non contempla il prestito a interesse: dalla finanza islamica al venture capital, dagli esperimenti di denaro a scadenza durante la grande depressione ad alcune forme attuali di moneta complementare. Cominciano a circolare anche nuove proposte, per la riforma del sistema monetario internazionale e addirittura per l’istituzione di una camera di compensazione europea. Cogliendo tali germi di novità, questo saggio intende contribuire a pensare e progettare, studiare e promuovere una finanza diversa, cooperativa, concepita non come un mercato, ma come lo spazio del rapporto fra debitore e creditore.

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