Dismessi i panni del tecnico, ormai Mario Monti parla da politico vero. Le due interviste rilasciate al Der Spiegel e al Wall Street Journal segnano il cambio di passo. Nel giro di due giorni l’austero presidente del Consiglio è entrato senza troppi timori reverenziali nel dibattito politico, internazionale e non. Prima chiedendo maggior “flessibilità” nei rapporti tra Parlamenti e governi. Poi chiamando in causa direttamente Silvio Berlusconi tra le spiegazioni della crisi economica italiana. Due interventi tutt’altro che sobri, che ieri hanno sollevato le vibrate proteste dei parlamentari tedeschi. E oggi quelle degli esponenti del Popolo della Libertà.
Tranquillizzata la Germania con una puntuale smentita, in queste ore il Professore deve affrontare la dura reazione dei berlusconiani. Alla Camera e al Senato è una giornata di scontro. I parlamentari del Popolo della libertà reagiscono male all’intervista pubblicata dal Wall Street Journal. In particolare non hanno digerito quel passaggio sul Cavaliere. «Se Silvio Berlusconi fosse ancora a Palazzo Chigi lo spread sarebbe a quota 1.200». Si lamentano, accusano il presidente del Consiglio, minacciano di staccare la spina al governo. In alcuni passaggi sembra quasi di sentire Antonio Di Pietro. Il Professore «è vittima di un colpo di sole», è «il killer della democrazia».
Su una cosa i pidiellini hanno ragione. Mario Monti non è più lo stesso. Ormai è diventato un politico a tutti gli effetti. E lo dimostra, cosa per loro ancora più dolorosa, da tribune straniere di tutto rispetto. Intervistato da quei giornali tedeschi e statunitensi che fino a qualche mese fa non perdevano occasione per criticare il governo Berlusconi.
Ai parlamentari del Pdl che in segno di protesta escono dalle aule di Montecitorio e Palazzo Madama per far mancare il numero legale sfugge, però, un’altra verità. Nel confronto tra centrodestra e Monti, ha vinto quest’ultimo. Anzi, ha stravinto. Incensato oltreoceano, il Professore è riuscito in un solo colpo a fare impazzire di rabbia i pidiellini e a farsi votare – seppure con qualche assenza – il decreto sulla Spending Review. Insomma, nel giro di poche ore il presidente del Consiglio ha evidenziato tutte le contraddizioni che caratterizzano il Popolo della libertà.
Il bello è che Monti non ha neanche dovuto smentire quelle frasi sullo spread. È questo il vero riconoscimento della sua vittoria. Si è limitato a chiamare il Cavaliere, come racconta una nota dell’ufficio stampa del governo. Ma solo per chiarire che il virgolettato incriminato è stato estrapolato dal contesto. Il presidente del Consiglio «si è detto dispiaciuto». Sì certo, in Italia la sua frase è stata «colta come una considerazione di carattere politico». Ma non era «nelle sue intenzioni». Nesuna ritrattazione, nessuna smentita.
Mario Monti si scopre politico. Si infittiscono le indiscrezioni su un suo nuovo incarico a Palazzo Chigi. Magari al Quirinale. È ancora presto per sapere quale sarà il suo futuro. Certo non sfugge che stavolta l’attacco al Cavaliere è diretto. Una critica tanto più pesante perché arrivata su un giornale straniero. E perché segue di qualche settimana il progetto mai smentito dell’ex premier di candidarsi alla guida del prossimo governo. Al centro della polemica non finisce l’ultimo esecutivo di Berlusconi, ma la strategia che lo vorrebbe ancora a Palazzo Chigi.
A questo punto il Popolo della libertà aveva due possibilità. Fare spallucce, in nome della responsabilità che lega i partiti all’esecutivo dei tecnici. Magari lamentandosi direttamente con il Professore, in privato. Oppure alzare la voce. Tanto. Votare contro il primo provvedimento disponibile di un certo rilievo (la Spending Review approvata nel pomeriggio alla Camera). Mostrare gli attributi e far cadere il governo, con tutto quello che ne sarebbe derivato in termini di consenso elettorale. Se ne parlerà questa sera a Palazzo Grazioli, dove il Cavaliere ha convocato lo stato maggiore del partito.
Nel frattempo, però, a via dell’Umiltà è stata scelta una terza opzione. Abbaiare tanto, per non mordere affatto. Minacciare ritorsioni per poi approvare tutto quello che c’era da votare. Con un’aggravante. Una serie di piccole ripicche da scuola elementare. Non potendo affossare il provvedimento sui tagli alla spesa, a Montecitorio il Pdl si è limitato a votare un ordine del giorno su cui il governo aveva dato parere negativo. Decisione rivendicata persino con orgoglio: «Lo abbiamo fatto apposta per protesta contro le parole di Monti su Berlusconi. Ha detto una sacrosanta sciocchezza e noi abbiamo voluto lanciare un segnale» ha spiegato alle agenzie di stampa il deputato Pietro Laffranco. Come se il bilancio dello Stato fosse il terreno adatto per dispetti di questo tipo.
Stessa storia a Palazzo Madama. Dopo aver fatto mancare il numero legale per quattro volte, nel pomeriggio i senatori di Pdl, Lega e Idv hanno costretto la presidenza a sospendere la seduta. Riaggiornata al 6 settembre (ma non si era detto che il Parlamento avrebbe lavorato tutta l’estate?). Un Aventino – ma in serata i senatori pidiellini smentiscono qualsiasi strategia antigovernativa – che non sembra aver particolarmente terrorizzato l’esecutivo. Anche perché a saltare è stata niente altro che la ratifica del Protocollo della Convenzione delle Alpi.
Il risultato più evidente di tutta questa manovra, semmai, è la spaccatura del partito berlusconiano. «Il problema – spiegava poco fa il vicepresidente dei deputati Pdl Maurizio Bianconi – è che nel Pdl c’è ancora chi consiglia a Berlusconi e Alfano di sostenere questo killer di diritti, di democrazia, e dei nostri valori». Così a nove mesi dall’esordio del governo tecnico, il Pdl resta diviso tra chi sostiene i tecnici e chi vorrebbe far cadere l’esecutivo. Un partito a metà. E per questo più debole. Ormai incapace di dare il benservito al Professore, anche se lo volesse.