Dopo il tonfo del 2009 la produzione industriale italiana non si è più ripresa. Lo confermano, in modo chiaro, i grafici qua sotto, da cui si deduce il fatto che siamo drammaticamente scesi ai livelli del 1992. Annus horribilis anche quello, come ricorderemo. La differenza tra il ’92 e il 2009 sta però nel fatto che dopo il ’92 abbiamo ricominciato a correre. Dal 2009 in avanti, invece, abbiamo continuato ad arretrare e la quota della produzione industriale mondiale dell’Italia è scesa ad un valore di poco superiore al 3% (era il doppio nel 2000), col contestuale calo nella nostra quota sulle esportazioni mondiali (anch’esse ormai inferiori al 3 per cento).
Con la conseguenza, come ben evidenziato, che il divario tra noi e la locomotiva industriale tedesca si è ulteriormente accentuato. Come è potuto accadere tutto ciò? Le ragioni sono tante e non è facile condensarle in un commento. Ci soffermiamo dunque su due questioni.
La prima, quella più rilevante, attiene alla nostra specializzazione produttiva. Che è decisamente più debole rispetto a quella tedesca. L’ossatura della produzione industriale tedesca poggia infatti su una ventina di segmenti produttivi più “sofisticati” e decisamente meno aggredibili dalla concorrenza. Come ad esempio quelli della produzione di macchine per la lavorazione dei metalli, di autoveicoli, di macchinari elettrici, di strumentazioni scientifiche, di apparecchiature elettroniche, di macchine per le generazione di energia, di prodotti chimici, di metalli speciali. Si tratta in tutta evidenza di settori in cui la Germania, anche negli anni di picco della crisi in atto, ha incredibilmente incrementato la propria specializzazione nel confronto con i partner europei. Questo anche perchè nella crisi le imprese tedesche hanno saputo cogliere le opportunità che ha offerto e mette tuttora a disposizione una supply chain di dimensioni globali nella quale sono pienamente immerse da almeno quindici anni.
Per converso, nella classifica della specializzazione produttiva della Germania, ambiti produttivi “poveri”, come il tessile-abbigliamento, le calzature, gli articoli da viaggio, alimenti e bevande, rivestono un ruolo marginale. Il che conferma la scelta dei tedeschi, frutto di una chiara politica industriale e di una vision politica, di puntare verso produzioni più forti, ad elevato contenuto tecnologico e dunque meno esposte alla competizione globale, in particolare di paesi aggressivi come India, Cina, Brasile, per citarne alcuni. Dove un approccio labour intensive paga moltissimo in segmenti che richiedono dosi minori di tecniche produttive e tecnologia.
Nel caso della nostra industria manifatturiera, invece, la specializzazione produttiva è concentrata su settori “poveri”, come ad esempio il tessile-abbigliamento, i mobili, l’ottica, gli articoli da viaggio, i prodotti di pelle e cuoio o in plastica. È superiore alla media dei paesi europei la specializzazione nelle produzioni di macchine per la lavorazione dei metalli, di macchinari ed impianti a controllo numerico. Ma ciò non è sufficiente a compensare una debolezza di fondo della nostra struttura produttiva, dove la specializzazione è di molto inferiore alla media in settori determinanti, come la produzione di veicoli, di apparecchiature elettroniche, le telecomunicazioni, la chimica.
In assenza del traino di tanti settori forti e difficilmente imitabili e soprattutto della loro capacità di adattamento alle dinamiche e variabili sempre più difficilmente governabili del contesto globale, è chiaro come l’Italia non si sia più riuscita a riprendere dal tracollo del 2009. Anno clou, il 2009, di una crisi mondiale cominciata prima e che per il nostro Paese ha significato far venire al pettine tutti i nodi di un tessuto economico-produttivo in parte non preparato alle sfide imposte dalla competizione globale. Ma soprattutto incapace di adeguarsi, prima dell’inizio della crisi, alla rivoluzione dell’ict ed alla globalizzazione. Per tante ragioni. La più rilevante delle quali risiede nella miopia dei governi susseguitisi negli ultimi venti anni e delle rappresentanze datoriali, che non sono stati in grado – a parte l’esperienza tardiva, nata e morta prematuramente, di “Industria 2015” – di mettere in campo iniziative significative di politica industriale. Non comprendendo, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, come stesse cominciando a spirare un vento nuovo e forte. Che avrebbe messo alle corde una organizzazione industriale non fondata su alcuni assi prioritari e molto frammentata, il nanismo di impresa, la sua dimensione familistica e la conseguente incompetenza manageriale, l’insufficienza di capitali nell’impresa. E che avrebbe fatto tramontare l’idea – peraltro ancora ritenuta, da una parte della nostra classe dirigente, la carta vincente – secondo cui il distretto, come meccano industriale in cui si costruisce una supply chain locale, ci avrebbe permesso di navigare a vele spiegate nel mare aperto del mercato senza barriere.
Poi paghiamo, più della Germania, per i motivi di sui sopra, il fatto che si sia fatto strada ed abbia resistito fino all’esplosione dell’economia di carta, l’idea di poter fare a meno della manifattura. A vantaggio di una progressiva terziarizzazione dell’economia, su cui altri paesi hanno scommesso, con risultati poco incoraggianti.
Certo, nel confronto con la Germania, pesano sulla capacità competitiva della nostra manifattura fattori storici. Come una burocrazia che non ha eguali al mondo, una criminalità che mette sotto scacco un terzo dell’economia nazionale; una frammentazione eccessiva nelle attività di ricerca scientifica e di trasferimento tecnologico; un contesto normativo, fiscale e finanziario che non invoglia gli imprenditori a fare salti dimensionali aprendo il capitale delle loro aziende familiari al mercato; un deficit di concorrenza nei mercati dei beni e, soprattutto, dei servizi, a cominciare da quelli di pubblica utilità con la conseguenza che l’energia costa in Italia almeno il 30 per cento in più che in Germania; l’insufficienza di sinergie tra imprese e mondo della formazione tecnica e universitaria, ma anche tra ricerca privata e ricerca pubblica. Cose note, insomma, su cui si straparla da decenni. E che contribuiscono a spiegare con ancora maggiore evidenza come mai, dopo che in Germania ed in Italia si è assistito nel 2009 ad un crollo simile della produzione industriale (-15,6 % in Italia e -16,7% in Germania), questa, nel 2010, sia cresciuta in Italia del solo 4,8 e in Germania del 10,3 per cento.
La scarsa capacità reattiva, dell’Italia rispetto alla Germania, alle tempeste economico-finanziarie di questi anni, non è però pienamente comprensibile se non si esaminano alcuni dati. Che ascriviamo alla seconda categoria di ragioni strutturali che determinano il divario dalla Germania. Si pensi innanzitutto al debito pubblico che in Italia è il 120 per cento della ricchezza prodotta (pil), mentre in Germania è l’85%. E poi alla tassazione sui redditi di famiglie e di imprese, che in Italia è pari al 42,3 per cento del Pil, lontana dalla media dell’Unione Europea (38,4 per cento), ma soprattutto dal dato della Germania (38,1 per cento).
Poi, nel nostro Paese, dove si sono fatte battaglie epocali per avere quasi cinquanta tipologie contrattuali o per tentare di ridurre l’orario di lavoro settimanale, c’è un grandissimo problema di produttività: nel periodo 2001-2010 la produttività oraria del lavoro è cresciuta appena dell’1,2 per cento, contro l’11,4 per cento dell’area Ue-27 e addirittura il 26,1 per cento della Germania. Il forte gap tra noi ed i tedeschi non è dovuta al fatto, che oltralpe lavorerebbero 60 ore alla settimana e rinuncerebbero a ferie ed a permessi. Come anche recentemente un ministro ha tentato di farci credere. Chi ha avuto la possibilità di visitare alcune fabbriche tedesche, può ben testimoniare il fatto che la differenza la fanno l’utilizzo di strumentazioni tecnologiche nel processo produttivo che ne facilitano e velocizzano lo svolgimento, nonché la superiore capacità delle imprese tedesche di organizzare il lavoro.
Sul progressivo arretramento industriale dell’Italia pesa anche il dato del tasso di occupazione (inferiore al 60 per cento) che è tra i più bassi del mondo avanzato. Il confronto con la Germania è impressionante: nella fascia d’età compresa tra 15 e 24 anni il tasso di occupazione è del 20 per cento circa in Italia a fronte del 47 per cento circa in Germania. Ed anche nella fascia di età tra i 25 ed i 54 anni, il divario è rilevante: il 70 per cento dell’Italia contro l’82 per cento della Germania.
Un ulteriore elemento distintivo, in termini negativi per l’Italia, attiene agli investimenti in ricerca: in Germania rappresentano il 3 per cento del Pil (contro l’1,2 dell’Italia), che permettono di dare lavoro a 8 ricercatori full time ogni 1000 addetti (contro i 4 ricercatori ogni 1000 addetti dell’Italia).
Tutto ciò insomma per dire che l’industria italiana soffre e non si riprende, come quella tedesca, per ragioni di politica industriale, ma anche per deficit strutturali.
Torna allora in mente ciò che scrisse i primi mesi del 2010 Salvatore Rossi, direttore centrale per l’area ricerca economica e relazioni internazionali di Bankitalia: “i difetti strutturali del sistema economico italiano rappresentano altrettante difficili sfide per una politica economica che voglia rilanciare la produttività, la competitività e la crescita di lungo periodo. E’ in questo vasto e variegato campo delle politiche cosiddette “strutturali” che la capacità decisionale del sistema politico viene messa alla prova decisiva, un campo irto di difficoltà perché tecnicamente complesso e disseminato di agguerriti interessi di gruppi di pressione e corporazioni”. Salvatore Rossi, nel marzo del 2010, sembra quasi avesse previsto in quali difficoltà si sarebbe imbattuto il Governo Monti. Che è alla prova decisiva per tracciare un orizzonte di politica industriale che non sia il frutto di una mediazione al ribasso con parti sociali, troppo abituate nel tempo a considerare la concertazione come un mercato delle vacche, più che un modello di discussione e decisione sul futuro del Paese.