Bersani-Grillo è solo una rissa in quel che resta della sinistra

Bersani-Grillo è solo una rissa in quel che resta della sinistra

Una rissa a sinistra? Benvenuti a Babele. Se le categorie concettuali, così come le abbiamo ereditate dalla storia, hanno un senso, Beppe Grillo non è certo (e neppure vuol essere) «di sinistra»; così come non lo sono, né vogliono esserlo, Antonio Di Pietro o Marco Travaglio. Sul fronte opposto, però, neanche il Pd, nonostante la torsione «socialdemocratica» che gli ha impresso Pier Luigi Bersani, e il ruolo preponderante che vi hanno gli ex e i post comunisti, è, allo stato, un partito di sinistra.

Su che cosa di preciso il Pd intenda diventare da grande, dibatte, anche se un po’ distrattamente, da tempo ormai immemorabile, e sull’esito del confronto, sempre che un esito alla fine ci sia, nessuno può avanzare previsioni sensate.

Ma a Babele, ci piaccia o no, viviamo: e dunque sì, questa in corso è senza dubbio, a modo suo, una rissa a sinistra o, per essere più precisi, in quel che resta della sinistra italiana. Una rissa, non una guerra. Perché la guerra civile della sinistra italiana, quella tra comunisti e socialisti, si consumò negli anni Ottanta, e si concluse, avrebbe detto il vecchio Marx, con la comune rovina delle parti in lotta. Sembrò, per qualche tempo, che le cose stessero, o potessero stare altrimenti, che a fronte della damnatio memoriae cui erano dannati i socialisti, agli eredi del Pci stesse arridendo, all’apparenza almeno fuori tempo massimo, la più strana delle vittorie. Ma si trattò di un clamoroso abbaglio.

La sinistra, tutta la sinistra, aveva smarrito, con i suoi partiti, le sue identità tradizionali, e non aveva voluto, saputo o potuto (a questo punto, fa lo stesso) elaborare il lutto. Neanche nei suoi anni migliori era stata la fortezza serrata e inespugnabile di cui si chiacchiera. Mai, però, davvero mai, era stata così incapace di esprimere un proprio autonomo punto di vista (lasciamo perdere le visioni del mondo), e quindi così esposta a ogni sorta di incursione, politica e, prima ancora, culturale. Prima tra tutte quella di un giustizialismo ora colto e, a modo suo, riformatore, ora orgogliosamente plebeo, ma sempre abbondantemente nutrito di un’avversione quasi di pelle (verrebbe da dire: di una repulsione) non solo, come sarebbe stato sacrosanto, verso il degrado della politica e dei partiti, ma verso la politica e i partiti in quanto tali: come se dal profondo della storia nazionale fossero riemersi i mostri faticosamente tenuti a bada, dal governo e dall’opposizione, nei decenni migliori della Prima Repubblica.

Adesso, anche le eterne mosche cocchiere che allora, e poi per molti anni, li adularono e li evocarono, quasi fosse possibile per una sinistra ormai nana appollaiarsi sulle spalle di simili giganti, di fronte all’avanzare impetuoso della cosiddetta «antipolitica», che non a caso prende a suo principale bersaglio il Quirinale, lanciano un grido di allarme: attenzione, per carità, questa non è una sinistra più radicale e più ostile ai compromessi, questa è una nuova, pericolosissima destra. Vero, verissimo, anche se era vero, anzi, verissimo pure ieri e l’altro ieri, quando in nome delle superiori esigenze della lotta contro Silvio Berlusconi e il berlusconismo dilagante ogni diverso parere, ogni distinguo, ogni approccio critico era messo al bando sotto l’accusa di collusione (o, come si diceva, di inciucio) con il nemico: basta frequentare un po’ il web per leggere, anche senza tirare in ballo il fascismo, come fa per antico riflesso condizionato Bersani, cose che a un vecchio militante della sinistra, ma pure a un vecchio democratico, fanno rizzare i capelli in testa.

Ma il problema non è di natura, diciamo così, definitoria. Il problema è che temi, espressioni, luoghi comuni tradizionalmente di destra (e non di una destra «montanelliana», ma di una destra profonda, limacciosa, risentita) hanno preso alloggio, e non solo nelle ultime settimane, in una parte importante (tutto sta a capire quanto) di un campo, quello della sinistra, politicamente e culturalmente sguarnito, per i motivi relativamente antichi di cui sopra e anche per più recenti, clamorose sviste.

Nel dopoguerra Palmiro Togliatti poteva permettersi di fare l’occhiolino, a distanza di sicurezza, a Guglielmo Giannini e all’Uomo qualunque, alla vigilia delle elezioni del 2008 Walter Veltroni, dopo aver evocato lo spirito del Lingotto, avrebbe fatto bene a fermarsi a riflettere non una, ma cento volte prima di chiudere la porta in faccia ai socialisti per spalancarla a Di Pietro; e, se è per questo, anche Bersani ci avrebbe dovuto pensar bene su, prima di farsi immortalare nella celebre foto di Vasto. Ora il segretario del Pd, un emiliano di sostanza che con i grillismi colti o plebei non ha mai avuto molto da spartire, prova a dare la battaglia politica e ideale che si sarebbe dovuta condurre in tutti questi anni, e che invece, in primo luogo per opportunismo, non è stata data. Non può fare altrimenti, perché siamo probabilmente prossimi (e per capirlo basterebbe fermarsi a ragionare un momento anche sul senso politico degli attacchi rivolti a Giorgio Napolitano) al momento della verità. Che lo faccia bene, con gli argomenti e i toni giusti, è naturalmente un altro discorso. Che non lo faccia a tempo pressoché scaduto, purtroppo, pure. Ma questo ce lo diranno solo le prossime elezioni e forse, prima ancora, la legge con cui andremo a votare: sbaglierò, spero, ma quella di cui a giorni alterni si vocifera sembra fatta apposta per scatenare tutti i mostri. 

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