Cina, il processo alla moglie di Bo: perché è così importante e perché sembra una farsa

Cina, il processo alla moglie di Bo: perché è così importante e perché sembra una farsa

PECHINO. Dopo l’ammissione è arrivato anche il movente: Gu Kailai avrebbe ucciso il britannico Neil Heywood, perché quest’ultimo avrebbe minacciato di “distruggere” il figlio, Bo Guagua, sotto ricatto dell’uomo d’affari inglese, sospettato di lavorare per i servizi segreti inglesi. Gu Kailai, moglie dell’allora potente capo del Partito di Chongqing, Bo Xilai, avrebbe armato il suo ingegno di cianuro, attirato Heywood in una trappola e con un complice lo avrebbe ucciso. In seguito avrebbe pensato di farla franca, grazie all’intervento del super poliziotto Wang Lijun, cui si sarebbe appellata perché venisse “coperto” il delitto.

Sembrerebbe tutto perfetto: una madre disperata, un omicidio dettato da un ricatto, un maldestro tentativo di nascondere i fatti, la frittata finale e l’assunzione della colpa e di una probabile condanna all’ergastolo. Chi manca nella trama?

Manca il Partito Comunista cinese che uscirebbe indenne, in questo modo, da un pasticcio che ha invece coinvolto e non poco i propri vertici e non solo, forse, la propria esistenza. «Ha tenuto», come si diceva un tempo: il cuore pulsante del potere cinese ha gestito tutto con estrema attenzione, perfino troppa, perché la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad una trama preconfezionata.

Nella vicenda Gu Kailai- Bo Xilai, infatti, ci sono più domande senza risposta, che non un fluido procedere di una trama che pare scritta da un giallista a corto di idee. Uno scrittore di noir che punta sull’esperienza e va sul sicuro: ricatto, omicidio, con un background politico a sfiorare appena la verità dei fatti.

Ovvero: la sensazione, da quando è scoppiato lo scandalo politico più clamoroso degli ultimi vent’anni in Cina, è quella di trovarsi di fronte ad un copione via via orchestrato dai geni del male della Propaganda del Partito, che pare abbiano servito su piatti d’argento ogni singolo evento di questo strambo periodo storico nazionale, dalle prime fasi delle indagini, fino ad arrivare alla farsa del processo durato sette ore e di fatto sancito da un comunicato dell’agenzia ufficiale.

Procediamo con ordine.

Il 15 novembre Neil Heywood muore a Chongqing. La morte viene associata ad un uso massiccio di alcool, il corpo cremato in fretta e furia.

14 marzo 2012: il primo indizio arriva quando Wen Jiabao tuona contro i personalismi e il modello Chongqing, durante la conferenza stampa che conclude la sessione annuale di quanto più simile la Cina ha ad un Parlamento. Fino a quel momento sapevamo alcune cose: che Wang Lijun, il superpoliziotto di Chongqing, braccio destro di Bo Xilai, era scappato al consolato di Chengdu. Che era stato prelevato dalla polizia di Pechino. Che era in “vacanza terapeutica”. Perché era andato al consolato e soprattutto cosa aveva detto agli americani? Primo mistero che rimane valido ancora oggi. Le parole di Wen Jiabao suonano come le campane a morte per Bo Xilai.

15 marzo 2012: Bo Xilai è destituito, ma non espulso, da ogni incarico a Chongqing. Il giorno dopo esce un articolo di Xi Jinping, il futuro leader cinese: si scaglia contro i personalismi politici con un chiaro intento, ovvero quello di screditare Bo e le sue manie di grandezza.

Il 20 marzo 2012 arriva la prima imbeccata del Partito Comunista. Su youtube viene pubblicato l’audio di una conversazione. Sarebbe il confronto tra alcuni funzionari di Chongqing che spiegherebbero le ragioni della defezione di Wang Lijun: secondo quanto riportato dalla voce registrata, dopo la notizia della fuga di Wang al consolato, «la mattina del 9 febbraio il segretario del partito Hu Jintao ha tenuto una riunione del Comitato permanente del Politburo per lo studio del caso. L’incontro ha concluso che l’incidente di Wang Lijun era il primo caso, dopo la fondazione della Repubblica popolare cinese, in cui un funzionario livello provinciale è entrato in un consolato straniero di propria iniziativa…. Abbiamo bisogno di gestire questo evento correttamente e dare il nostro meglio per limitare i danni che questo incidente ha portato al Partito e al Paese». Wang Lijun avrebbe descritto Bo Xilai alla stregua di un boss mafioso: è scappato temendo per la propria vita. Sarebbe stato minacciato di morte di Bo Xilai.

22 marzo 2012: si diffonde una notizia secondo la quale Zhou Yongkang, Segretario del Comitato centrale politico e legislativo del Pcc e difensore di Bo Xilai nel Politburo, nonché capo di tutta la sicurezza cinese, sarebbe stato messo agli arresti domiciliari. Si diffondono le voci di un golpe in Cina.

25 marzo 2012: il governo inglese chiede alla Cina di aprire un’inchiesta sulla morte di Neil Heywood. Il Wall Street Journal è il primo media a ipotizzare il link: lega questa vicenda alla fuga di Wang Lijun nel consolato americano.

Il 10 aprile il Partito accelera: Bo Xilai destituito anche dal Politburo e la moglie è incriminata dell’omicidio di Heywood. Secondo molti quotidiani, tra cui il Telegraph e il New York Times, Heywood sarebbe stato ucciso perché gestiva importanti affari economici per la famiglia, come ad esempio il trasferimento all’estero di ingenti somme di denaro. Wang Lijun al consolato americano avrebbe raccontato i “maneggi” della famiglia Bo dando avvio alle indagini che avrebbero portato alla destituzione di Bo e all’incriminazione di Gu.

Il processo farsa sancisce queste verità. Manca totalmente la politica, e non è un caso. E’ altresì vero che il Pcc storicamente sistema le sue beghe con i suoi tempi: successe già con la condanna per corruzione dell’ex sindaco di Pechino, Chen Xitong, arrivata tre anni dopo la sua caduta. Per quanto riguarda Cheng Liangyu, ex boss del Pcc a Shanghai, destituito nel 2008 sempre per corruzione, per arrivare a un verdetto ci vollero due anni.

Ma nell’intricata trama, nel continuo “ping” di fatti, sospetti, rivelazioni si rischia di perdere il contorno: la coppia Bo non è una coppia normale. Stiamo parlando di due figli di “rivoluzionari”, una delle famiglie più potenti del paese. In Cina la famiglia Bo rappresentava più di un una unione sentimentale: era un piccolo impero economico e politico. Lei avvocato di successo, lui futuro membro del Comitato Permanente, il leader politico più occidentale tra i cinesi, quello capace di campagne populiste, uno sulla bocca di tutto, ammirato e capace di tenere vicino a sé personaggi importanti della politica e soprattutto dell’esercito. Bo Xilai, la sua famiglia, rappresentavano una minaccia prorompente per la collegialità del Partito Comunista e il modello rappresentato, un capitalismo di stato con derive maoiste in termini politici, era molto di più che una semplice boutade su un giornale.

La coppia, di cui si è parlato in termini da rotocalco rosa, aveva un’intesa che trascendeva il romanticismo, il sentimento e l’afflato matrimoniale: era una famiglia che stava tentando il colpo più clamoroso: diventare i padroni del paese.

Tutto questo è stato annacquato dal “giallo”, dai contorno da spy story, dai pruriginosi gossip dati alla stampa, specie quella occidentale, per nascondere una guerra aperta che pare non ancora terminata.

Il 19 marzo ad esempio, a margine dello scandalo di Bo Xilai e Gu Kailai, succede questo, stando a quanto ricostruito tra media, fonti anonime e persone che dicono di conoscere i fatti.

C’è un uomo importante in Cina: Zhou Yongkang. E’ il capo della sicurezza cinese, è alleato di Bo Xilai. Ha assaporato l’aria: è uno che sa come funzionano le cose da queste parti. Di fronte a casa sua – quella ufficiale, a Zhongnanhai – ha fatto mettere un plotone di 36 paramilitari. Sono i suoi uomini: quelli che ha comandato, spinti a rimuovere ogni forma di dissidenza, convinti a smettere di bere e a obbedire. A lui, più che ad altri.

Fosse lì, ma essendo una persona previdente ha visto bene di non farsi trovare, da uno spiraglio di una finestra, potrebbe osservare la scena con divertito timore: ai suoi uomini sono contrapposti quelli del 38° battaglione della polizia di Pechino.

Li ha mandati il Presidente, inzuppato di panico dalle voci che davano l’uomo che non c’è in procinto di scatenare l’inferno. Un colpo di stato nella Cina del 2012. Inammissibile.

I soldati avanzano, non si fermano, procedono, obbediscono agli ordini del loro capo supremo: i paramilitari affrontano il “nemico”, specificando che in caso di attacco, considereranno i soldati alla stregua di “ribelli”. Che significa licenza di sparare e dare vita ad una carneficina. I soldati continuano la loro mossa. Ordini contro ordini.

A quel punto dai paramilitari si alza una voce riconoscibile e netta: quella degli AK47. Sono gli spari che nei giorni successivi faranno urlare al colpo di stato, allo scontro a fuoco a Zhongnanhai, con annesse leggende metropolitane, come i cinesi qualunque che affermano: «Ho visto i buchi dei proiettili».

Impossibile, gli spari sono in aria, alla luna, al massimo. I militari si fermano. Poco distante suona un telefono. Un uomo preoccupato risponde e dall’altra parte una voce lo rassicura: «Non credere a quanto messo in giro da ostili stranieri o alle balle che ti raccontano i tuoi zelanti assistenti». E tutto sembra tornare alla normalità.

E’ il teatro della politica cinese: uno spettacolo che non si vede, ma che bisogna interpretare. I fatti, quelli veri, sono tutti dietro, tra le quinte.

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