LONDRA – Wu Minxia è una tuffatrice cinese di ventisei anni. Quando l’anno scorso è morta sua nonna deve aver avuto una sorta di premonizione; ha chiamato casa, cosa che fa raramente, per chiedere se fosse tutto a posto. Suo padre le ha risposto di sì.
Quando la Cina si è vista assegnare i Giochi ospitati a Pechino quattro anni fa, siamo nel 2001, il governo ha istituito un programma noto come Project 119 allo scopo di conseguire il maggior numero di medaglie possibile alle Olimpiadi di casa. È stato allora che Wu Minxia, già campionessa olimpica ad Atene a 18 anni, è andata via di casa per entrare nel programma.
Da allora i suoi contatti con la famiglia si sono ridotti al minimo, qualche telefonata in cui lei chiede come vadano le cose sentendosi rispondere che è tutto a posto. Un padre che la segue su Weibo, il twitter cinese, per sentirla un po’ più vicina. Otto anni passati ignorando persino le condizioni di salute di sua madre, malata di tumore al seno.
Poi il primo posto sul podio olimpico qui a Londra, con il quale Minxia è diventata la prima nuotatrice donna a vincere tre ori consecutivi in tre Olimpiadi di fila nella stessa disciplina (il sincro 3 metri). Solo allora la famiglia ha potuto turbarla con le notizie di casa, malattie, lutti, forse qualche gioia.
«Non le diciamo mai cosa succede a casa, non vogliamo deconcentrarla. Ormai abbiamo accettato che nostra figlia non ci appartenga del tutto», ha detto il padre di Wu Minxia allo Shangai Morning Post, quotidiano di proprietà del Comitato del Partito Comunista di Shangai. Una confessione, quella del padre di Minxia, esibita con orgoglio dalla stampa cinese come l’ennesima dimostrazione di quale modello di crescita stia inseguendo la Repubblica Popolare Cinese e quale prezzo sia disposta a pagare per conseguirlo.
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