Una persona coraggiosa che ha combattuto la corruzione, l’illegalità e il malaffare, un eroe della patria e un moralizzatore inflessibile che ha sconfitto la protervia e l’impunità di un regime indifendibile. Un moderno tribuno senza scrupoli, nemico del garantismo e campione della demagogia, del qualunquismo e del populismo, che ha costruito il proprio consenso parlando alle viscere profonde del paese e alimentandone gli istinti irrazionali più rozzi e violenti. Nessun personaggio pubblico come Antonio Di Pietro riesce a suscitare giudizi così conflittuali. Ma, al di là della sua natura apparentemente contraddittoria, è il completo rovesciamento della sua immagine e della sua percezione nell’immaginario collettivo rispetto a vent’anni fa a destare una fortissima impressione.
Basterebbe scorrere quanto tra il 1992 e il 1994 veniva scritto e dichiarato sul suo conto. Il giornale La Voce, creato e diretto da Indro Montanelli, titolava: “Così eroe, così normale”. Maurizio Gasparri gridava entusiasta: “È un mito: mejo lui del Duce”. Silvio Berlusconi gli rendeva omaggio: “Le mie televisioni sono al suo servizio”. Romano Prodi ammetteva: “Quello lì dove va si porta dietro i voti come fa la lumaca con il guscio”. Cesare Previti prometteva: “Nel Polo l’accoglieremmo a braccia aperte”. E Francesco Cossiga giurava: “Ha le qualità morali per andare al Quirinale”. Un sondaggio realizzato dalla Cirm decretò che il 72 per cento degli italiani lo avrebbe voluto accanto come compagno d’ombrellone, e una rilevazione demoscopica compiuta dalla rivista Elle lo immortalava come l’uomo più sexy del pianeta dopo Harrison Ford.
Una vera metamorfosi se pensiamo all’uomo oggi in guerra con il Quirinale, emarginato dalle forze progressiste e moderate, allontanato dallo stesso Movimento Cinque Stelle. Tale clamoroso capovolgimento è il frutto di scelte studiate con abilità tattica, opportunismo e tempismo, del fiuto del consenso e della popolarità. Oggi gli interrogativi e le ambiguità che hanno accompagnato la sua parabola emergono violentemente e devono essere affrontati una volta per tutte. A partire dal rapporto di amore-odio con la sinistra, coltivato e cristallizzato per troppi anni nel segno delle reciproche convenienze, delle aspirazioni convergenti di potere e di prestigio.
Un legame simboleggiato da quel giustizialismo che ha stravolto l’identità originaria del riformismo italiano. A cui appartiene anche l’opera politica di Bettino Craxi, che fino a pochi mesi fa l’ex magistrato ricordava come un “condannato latitante morto all’estero perché voleva sottrarsi alla giustizia”, e oggi viene riabilitato nella sua deposizione al processo Enimont sui finanziamenti illegali “che coinvolgevano anche il Partito comunista di Giorgio Napolitano”. Un contrappasso dantesco sembra compiersi attorno alla figura del leader socialista, le cui parole vengono recuperate da uno dei suoi “acerrimi nemici” per arricchire le munizioni del suo arsenale polemico contro il capo dello Stato. Sono proprio le sue spregiudicate dichiarazioni sull’ex segretario del Partito socialista a rappresentare in forma paradigmatica i tratti qualificanti della sua personalità. Ma è nel suo spirito camaleontico, legato a un’indubbia forza di volontà, alla tenacia e all’ambizione proprie della civiltà contadina di cui è figlio, che si può individuare il segreto della sua longevità sul palcoscenico pubblico.
Conseguito un diploma di perito elettronico in una scuola pagata facendo il muratore, a 21 anni Di Pietro va a lavorare in Germania, in una località del Baden-Wuttemberg, dove svolge allo stesso tempo l’attività di lucidatore di metalli in una fabbrica metalmeccanica e di operaio in una segheria. Tornato in Italia, nel 1973 comincia a studiare giurisprudenza all’Università Statale di Milano, lavorando come impiegato civile dell’Aeronautica Militare e preparandosi per gli esami di nascosto dalla sua prima moglie. Nel 1978 ottiene la laurea e l’anno seguente vince il concorso per diventare segretario comunale in alcuni centri della provincia di Como. Due anni più tardi accede a un corso per commissario di pubblica sicurezza e frequenta la Scuola Superiore di Polizia. Una veste nella quale rivela già doti evidenti di acume e fiuto investigativo.
Sarà proprio lui a risolvere il giallo del “mostro di Leffe”, scoprendo che dietro la mano che aveva ucciso un’intera famiglia si nasconde la figura di un bancario. Nel 1981 supera le prove di uditore giudiziario, e viene assegnato come pubblico ministero alla Procura di Bergamo. È nel 1985 che passa alla Procura di Milano, dove si occupa soprattutto di reati contro la pubblica amministrazione. Attività determinante nella sua formazione, nella quale si distingue per la sua padronanza degli strumenti informatici, essenziali per velocizzare le indagini e per coordinare e accedere facilmente alle informazioni processuali. Fin da allora si delinea una qualità investigativa che sarà alla base della fortuna giudiziaria delle inchieste di Mani Pulite.
Se la vulgata ufficiale individua nel 1992 il punto di svolta nel destino del magistrato, il vero spartiacque della sua esperienza professionale, e forse della sua vita, è il 1991, quando si verificano due avvenimenti che lo proiettano agli onori delle cronache.
A dicembre l’Associazione nazionale magistrati proclama uno sciopero contro la creazione per decreto legge della Direzione investigativa nazionale anti-mafia da parte del governo Andreotti e del suo Guardasigilli Claudio Martelli, persuaso della sua efficacia da Giovanni Falcone. L’iniziativa promossa dall’Anm è motivata dal timore che le competenze giurisdizionali e l’autonomia investigativa delle singole procure vengano violate e compresse. Tanto è vero che l’altro bersaglio polemico dell’astensione dal lavoro delle toghe è il Capo dello Stato Francesco Cossiga, protagonista di durissime accuse contro i comportamenti corporativi del Consiglio superiore. Pochi magistrati rifiutano di aderire allo sciopero, e per questo motivo vengono attaccati da gran parte dei colleghi come primedonne alla ricerca di visibilità. Tra loro figura il pubblico ministero Antonio Di Pietro, persuaso che solo proseguendo il lavoro quotidiano si può dare corpo al principio di legalità e indipendenza delle toghe.
L’altro evento di rilievo prende forma in un articolo pubblicato sul mensile milanese “Società civile”, nel quale il pm spiega che la tangente data al politico dall’imprenditore per ottenere un appalto costituisce una realtà pervasiva e quotidiana nella “Capitale morale” d’Italia. Un meccanismo, riassunto nell’espressione “dazione ambientale”, divenuto automatico e sistemico nei rapporti fra istituzioni e aziende. Una regola tacita fondata sull’estorsione e sul ricatto, su cui si regge l’intero mondo degli affari a Milano.
Il ragionamento svolto dal magistrato prelude in modo letterale alla marea giudiziaria destinata a scuotere i pilastri della prima Repubblica. L’arresto nel febbraio 1992 del presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, colto in flagrante mentre riceve una tangente di pochi milioni di lire dal responsabile di una ditta di pulizie locale, sancisce l’avvio di Mani Pulite. Antonio Di Pietro è rappresentante di punta di una squadra di pubblici ministeri specializzati nella ricerca degli intrecci perversi fra pubblica amministrazione e affari: Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Ilda Boccassini. Tutti coordinati dal procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio e diretti dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli che su Di Pietro così si esprime: “Ha capacità di lavoro e produttività eccezionali grazie a vigore intellettuale, memoria e resistenza fuori dal comune”.
Partendo dall’imposizione da parte dei politici locali di mazzette agli imprenditori interessati alla costruzione di opere pubbliche e alla fornitura di servizi, lo storico pool milanese ricostruisce una rete colossale di illegalità e reati di corruzione e concussione. Alle cui fondamenta opera un meccanismo capillare di finanziamento illecito dei partiti, ipocritamente occultato dalle elargizioni statali che ne alimentano burocrazie e apparati. Tutte le forze di governo e i principali gruppi industriali del paese sono coinvolti in questa clamorosa alterazione delle regole e delle dinamiche di mercato e della vita istituzionale. Grazie a un elevato fiuto investigativo e al coordinamento e archiviazione informatica dei risultati delle indagini, uniti a interrogatori interminabili ed estenuanti dei testimoni chiave e a una richiesta massiccia e spregiudicata dei provvedimenti restrittivi a carico degli indagati, la Procura milanese fa luce su una realtà dalle dimensioni inimmaginabili fino a pochi mesi prima, e travolge come tasselli di un domino tutti i personaggi di spicco della classe di governo. Compresi Arnaldo Forlani, segretario della Democrazia cristiana, e Bettino Craxi, leader indiscusso del Partito socialista, divenuto, agli occhi di ampi settori dell’opinione pubblica, il simbolo del potere e delle sue degenerazioni.
Unico fra le grandi formazioni politiche dell’epoca, solo il Partito democratico della sinistra, erede del Pci, resta in piedi. Anche i suoi esponenti milanesi e lombardi vengono coinvolti dalle inchieste, e ne emerge un panorama di illegalità e spartizione delle tangenti sugli appalti capace di foraggiare la quasi totalità delle forze politiche. Con una differenza, che risulterà decisiva. Al contrario di quanto accaduto con le formazioni del pentapartito, le dichiarazioni e gli elementi forniti dai testimoni e dagli imputati legati al Pds non permettono agli inquirenti di chiamare in causa le responsabilità dei vertici di Botteghe Oscure. Sono Borrelli e Di Pietro a ripetere che la mancanza di solidi riscontri probatori a voci, testimonianze e accuse sui finanziamenti illegali al Pci da parte di aziende e di cooperative, non ha consentito alle indagini di trovare uno sbocco significativo.
È in questa stagione che la direzione dell’inchiesta giudiziaria incontra e suscita l’adesione del gruppo dirigente e dei militanti del Pds. Sicuri che i risultati di Mani Pulite possano favorire la propria marcia di avvicinamento al potere, dopo decenni di ostracismo e di democrazia bloccata. Nasce in questi mesi un rapporto singolare, basato sulla convenienza politica degli uni e sull’aspirazione al prestigio civile degli altri. Un legame che finisce per trasformare radicalmente il patrimonio genetico del principale partito della sinistra italiana, provocando una vera e propria metamorfosi culturale. Il germe del giustizialismo e l’illusione della scorciatoia giudiziaria per giungere al governo, il desiderio di risolvere nelle aule di tribunale problemi squisitamente politici, vengono inoculati progressivamente nel bagaglio ideologico del Pds, nei comportamenti e nelle strategie dei suoi rappresentanti. Sempre più allineati, da allora in poi, sulle iniziative del pool e sulle posizioni ufficiali della magistratura associata.
Ma l’adesione entusiastica all’inchiesta non proviene solo da sinistra. Restano impresse nella memoria le immagini delle manifestazioni e delle fiaccolate davanti al Palazzo di Giustizia che vedono uniti progressisti, simpatizzanti del Carroccio, militanti del Movimento sociale ed esponenti della “società civile” all’epoca mitizzata dai grandi giornali e dai mass media. Fra i quali spiccano i telegiornali della Fininvest di Silvio Berlusconi, cassa di risonanza di un’indagine che si rivela provvidenziale per le fortune politiche ed elettorali del Cavaliere. Sono proprio Canale 5, Rete 4 e Italia 1 ad aggiornare in maniera martellante ogni sera sugli sviluppi delle indagini, e a proporre con enfasi gli spezzoni e i passaggi cruciali del processo per la maxi tangente che ruota attorno al colosso della chimica Enimont.
Un processo altamente drammatico e dal forte impatto scenografico, un rito purificatore in cui si staglia come assoluto protagonista l’incalzante e infaticabile magistrato molisano, di fronte al quale sfilano nella veste di imputati o di semplici testimoni politici e potenti improvvisamente divenuti remissivi, intimoriti e spaesati. Tranne che in occasione dell’interrogatorio di Bettino Craxi, che svolge una pacata ricostruzione storico-politica dei canali di finanziamento illegale a tutti i partiti, in un dialogo alla pari con un magistrato sorprendentemente accomodante e disponibile all’ascolto. Lontano dall’immagine aggressiva palesata negli interrogatori degli altri imputati, Di Pietro sceglie con il leader socialista le armi del fioretto, che si rivelano efficaci per fare emergere la verità di un potere pervasivo e soffocante.
L’apice della “luna di miele” tra la Procura e il Biscione viene raggiunto all’indomani del voto del marzo 1994, quando il neo-premier offre l’incarico di responsabile del Viminale proprio all’eroe nazionale Tonino Di Pietro. Un personaggio che rivendica solide convinzioni conservatrici, e non nasconde di avere votato proprio per Forza Italia. Un uomo in grado di incarnare, non solo agli occhi del fondatore di Mediaset, il prototipo del salvatore della patria dedito alla legge e all’ordine, del vendicatore dei torti e delle ingiustizie provocati dai vecchi partiti corrotti, del decisore efficiente e in sintonia con il popolo.
Ma il rifiuto del novello eroe della destra, caldeggiato da Borrelli e dai colleghi del pool fra cui Davigo, a cui Gianfranco Fini ha proposto il ruolo di Guardasigilli, segna l’inizio di un allontanamento destinato a trasformarsi nello scontro feroce e infinito che ha dominato gli ultimi venti anni di storia italiana. Nonostante il prestigio e l’ammirazione che avvolgono la sua immagine e il suo operato, quei mesi del 1992 non sono facili. Come affermato dallo stesso ex magistrato ad Annozero nell’ottobre 2009, pochi giorni prima della strage di Via D’Amelio del 19 luglio, egli viene messo sotto protezione e inviato per ragioni di sicurezza in Costa Rica, con un passaporto di copertura a nome Marco Canale. Una misura adottata in seguito a una nota riservata dei Ros che lo indica come probabile obiettivo di un imminente attentato, proprio assieme a Paolo Borsellino.
Il primo drammatico punto di svolta nella sua vita professionale arriva nelle ultime settimane del 1994. È il 21 novembre quando, al termine di una conferenza internazionale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata presieduta a Napoli in qualità di capo del governo ospitante, Berlusconi riceve dai Carabinieri la notifica di un avviso di garanzia e di un invito a comparire davanti ai pm milanesi come persona indagata per corruzione. Il documento, anticipato il giorno prima sulle pagine del Corriere della Sera, porta la firma di Antonio Di Pietro.
Ma il 6 dicembre, appena conclusa la lunga requisitoria di accusa nel processo Cusani e pochi giorni prima che si riesca a tenere in Procura l’interrogatorio del Presidente del Consiglio, Di Pietro si dimette dalla magistratura. Lo fa spogliandosi lentamente, minuziosamente e con il volto contratto, delle vesti di pubblico ministero. Una delle immagini più eloquenti di quella stagione, attorno alla quale vengono avanzate le congetture più svariate. Le spiegazioni addotte dallo stesso ex pm nel corso degli anni non hanno mai chiarito pienamente la motivazione profonda di tale decisione. In quelle ore egli afferma di averlo fatto “per difendere il proprio onore”. Negli ultimi tempi, invece, ha presentato come ragione scatenante del proprio abbandono la fuga di notizie sul mandato di cattura a Berlusconi, reso noto mentre si trovava a Parigi per alcune rogatorie internazionali.
Con un singolare rovesciamento della storia, appena smessi i panni del magistrato dell’accusa, Di Pietro subisce una serie di indagini giudiziarie da parte della Procura di Brescia, destinate a risolversi tutte in assoluzioni piene o in archiviazioni. Nel 1995 viene inquisito dal sostituto procuratore Fabio Salamone che ipotizza a suo carico i reati di concussione e abuso d’ufficio, ma il gip non accoglie le richieste dell’accusa. Una seconda inchiesta viene aperta attorno a presunti traffici illeciti tra l’ex pm e una società di assicurazioni, ma finisce per capovolgersi a suo favore visto che gli inquirenti arrivano a ipotizzare un complotto orchestrato dal primo governo Berlusconi volto a farlo dimettere dalla magistratura incrociando ricatti e dossier anonimi. Le indagini portano all’incriminazione di Silvio e Paolo Berlusconi, oltre che di Cesare Previti e Sergio Cusani, per capi di accusa che vanno dall’estorsione all’attentato ai diritti politici del cittadino.
Nel filone di inchiesta emerge anche l’esistenza di un dossier del Sisde su Di Pietro chiamato “Achille”. Nel 1997, però, la pubblica accusa rinuncia a interrogare i propri testimoni e chiede l’assoluzione per tutti gli imputati. La richiesta viene accolta dal giudice. Termina così il periodo più difficile e turbolento nella vita dell’ex pubblico ministero, che scegli di riassumerlo con poche parole: “Due anni per realizzare Mani Pulite, quattro anni per difendermi dalle sue conseguenze. Sono stato accusato di tutto: dall’attentato agli organi costituzionali fino alle molestie sessuali. Uscito pulito da tutto, e soltanto grazie alle mie forze”.
La “nuova vita” di Antonio Di Pietro comincia nel maggio 1996, quando accetta di diventare responsabile dei lavori pubblici nel governo dell’Ulivo guidato da Romano Prodi. Alla guida del dicastero l’ex simbolo di Mani Pulite si distingue per la fermezza con cui porta avanti una politica di legalità e trasparenza negli appalti e per l’asprezza delle sue polemiche con gli ambientalisti ostili agli interventi radicali sull’ecosistema. Ma è nell’autunno del 1997 che si completa la sua discesa nell’agone politico-parlamentare. Per sostituire il senatore del Pds Pino Arlacchi, designato vicesegretario generale delle Nazioni Unite con l’incarico di alto rappresentante per le strategie contro la droga, D’Alema e Prodi offrono a Di Pietro la possibilità di candidarsi per l’Ulivo nell’elezione suppletiva per il collegio toscano del Mugello. L’ex toga accetta la proposta e il 9 novembre trionfa con il 67,8 per cento dei voti sconfiggendo il berlusconiano Giuliano Ferrara e il comunista Sandro Curzi. Rifiuta però di scegliere fra Pds e Popolari e decide di aderire al gruppo misto. Postazione dalla quale comincia a lavorare per la creazione di un proprio movimento politico.
Un’attività che porta il 21 marzo 1998 alla nascita, nel centro aretino di Sansepolcro, dell’Italia dei Valori. Movimento, come recita il suo statuto, che si colloca al centro dello schieramento politico e propone di rinnovare la vita pubblica basandosi su quattro principi: solidarietà, lavoro e occupazione, legalità, trasparenza. Al suo fianco nell’atto di nascita del nuovo soggetto vi sono Elio Veltri, già primo cittadino socialista di Pavia, e l’amica di famiglia Silvana Mura, fedelissima dell’ex pm e oggi tesoriera del partito.
Conquistata la fiducia di diversi parlamentari, Di Pietro aderisce al progetto dei Democratici per Prodi, sorto per portare avanti l’unificazione dei partiti che hanno dato vita all’Ulivo. La cui esperienza ha da pochi giorni ricevuto un colpo durissimo con la caduta del governo guidato dal professore bolognese. La nuova formazione, in cui l’Italia dei valori confluisce e di cui l’ex pm diventa responsabile organizzativo, debutta alle elezioni europee del 2009 ottenendo il 7,7 per cento dei voti e sette seggi. Ora Di Pietro è contemporaneamente senatore e parlamentare a Strasburgo.
Ma l’armonia nel partito dell’Asinello ha una breve durata e la convivenza con gli uomini di Arturo Parisi si interrompe bruscamente nell’aprile del 2000, quando Di Pietro decide di non votare la fiducia al governo presieduto dal socialista, già consigliere politico di Craxi, Giuliano Amato. Una vicenda che sembra anticipare di anni la clamorosa rottura consumata tra il gruppo dirigente dell’Idv e il Pd di Pier Luigi Bersani. E che illumina meglio di raffinate analisi politologiche e psicologiche la radicata insofferenza e allergia dell’ex pm alle alleanze e alle aggregazioni con forze e culture diverse.
Un’inclinazione peraltro in aperta contraddizione con la battaglia referendaria che l’ex pm contribuisce a promuovere nel 1998-1999 per l’abolizione della quota proporzionale nella legge elettorale Mattarella. Campagna fallita per un pugno di suffragi, ma che avrebbe potuto portare all’adozione di un meccanismo di voto completamente maggioritario e uninominale e alla creazione di poche grandi aggregazioni politico-culturali capaci di accogliere e mescolare correnti ideali e esperienze partitiche diverse e fino ad allora divise. Formazioni aperte e non dogmatiche, costruite sul metodo del confronto laico e sul principio della pluralità. La sconfitta di quel tentativo nell’aprile del 1999 consolida e perpetua la vocazione identitaria e ideologica dei partiti, la spinta a valorizzare e conservare apparati e burocrazie, a mantenere la propria centralità nelle alleanze e la loro sovranità sul destino dei governi di coalizione. E l’Italia dei valori non fa eccezione.
Completata la separazione dai Democratici, l’ex magistrato decide nel settembre del 2000 di rifondare l’Idv come partito autonomo imperniato sui temi della legalità, della trasparenza amministrativa e politica, di una intransigente opposizione a ogni riforma radicale dell’ordinamento giudiziario e della legislazione penale: responsabilità civile dei magistrati nei casi di colpa grave o di dolo, separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici giudicanti, superamento dell’egemonia delle correnti nell’elezione e nel funzionamento del Consiglio superiore, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, provvedimenti di amnistia e indulto, depenalizzazione dei reati connessi al consumo di droghe leggere e all’immigrazione irregolare.
Il primo banco di prova nazionale del nuovo partito risale alle elezioni politiche del maggio 2001, in cui l’Italia dei Valori non riesce a raggiungere un accordo con le forze dell’Ulivo e si presenta da sola. L’esito è disastroso: nessun candidato viene eletto nei collegi maggioritari, e la soglia del 4 per cento, necessaria per entrare in Parlamento nella quota proporzionale, viene appena sfiorata. L’unico rappresentante dipietrista in grado di conquistare un seggio grazie al recupero proporzionale previsto al Senato è Valerio Carrara, che poche settimane più tardi deciderà di abbandonare l’Idv e di aderire dal gruppo di Forza Italia. Una scelta sorprendente, destinata a inaugurare una lunga serie di rotture e defezioni, che si protraggono fino a oggi e portano alla luce un mondo percorso da aspri conflitti, rancori, incomprensioni, insofferenze personali. Fughe e abbandoni che trovano gli sbocchi più diversi, nell’intero arco parlamentare.
Può apparire sorprendente che proprio dal partito il cui leader ha tuonato contro “l’avvento del regime e del fascismo berlusconiano”, accusando il Cavaliere di “essere uno stupratore della democrazia” e accostandolo a personaggi come Jorge Rafael Videla, sia fuoriuscita una nutrita pattuglia di deputati e senatori trasmigrati senza esitazione nelle fila del Popolo della libertà e risultati spesso determinanti nella conta dei voti di fiducia ai governi del l’odiato centro-destra. Appartengono alla memoria parlamentare le giravolte compiute fra il 2006 e il 2011 da Sergio De Gregorio e Domenico Scilipoti, da Antonio Razzi e Aurelio Misiti.
Una contraddizione solo apparente, considerato che le ultime tornate di voto vengono celebrate con il Porcellum e che la graduatoria degli eletti nelle liste bloccate, anche dell’Italia dei valori, è stabilita dal capo e dalla sua cerchia ristretta, sulla base di informazioni inevitabilmente limitate. È il risultato logico di una procedura di selezione e di scelta che attribuisce il potere assoluto dell’elezione a oligarchie di partito non infallibili, anziché riconoscere tale facoltà ai cittadini di un piccolo collegio uninominale dove si contrappongono in aperta competizione i portatori di proposte alternative.
Tuttavia non è solo lo schieramento conservatore a beneficiare dell’emorragia che ha colpito il gruppo dipietrista. Numerose e talvolta drammatiche sono le defezioni di persone che poi hanno scelto di confluire nelle formazioni centriste e progressiste o di porre fine alla loro esperienza istituzionale. Tra le personalità di maggior rilievo possiamo annoverare Achille Occhetto, che alle elezioni europee del 2004 presenta assieme all’ex pm la lista Società civile-Italia dei valori, abbandonandola poche settimane dopo il responso fallimentare delle urne e cedendo il seggio al giornalista Giulietto Chiesa. Anch’egli autore di un’aspra rottura con il partito, “a causa della constatazione di una completa incompatibilità tra i miei valori e le mie idee, di etica e di politica, e quelle del signor Di Pietro”.
Nell’ottobre 2007 è l’attrice Franca Rame a dimettersi dal gruppo senatoriale, reo di non avere votato a favore dello scioglimento della società per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina e di non avere appoggiato l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sui fatti del G8 di Genova. Scelta confermata pochi mesi più tardi, quando Di Pietro si schiera assieme a Casini e alla Casa delle Libertà contro la rimozione del capo della polizia Gianni De Gennaro, il più alto responsabile delle forze dell’ordine durante le violenze nel capoluogo ligure, indagato per istigazione alla falsa testimonianza degli autori dell’irruzione alla scuola Diaz. Richiesta di allontanamento che l’ex pm definisce “una vendetta della sinistra massimalista”. Nel luglio 2008 è il turno di Jean-Léonard Touadi, che in una lettera a Di Pietro annuncia la rottura con l’Idv e l’ingresso nel gruppo parlamentare del Pd all’indomani del “No Cav Day” di Piazza Navona, in cui vengono violentemente attaccati il Capo dello Stato, il Pontefice e Walter Veltroni.
E la necessità di evitare rotture con il Partito democratico riecheggia oggi nelle argomentazioni di chi, come Massimo Donadi, Nello Formisano, Elio Lannutti, osteggia la strategia “qualunquista e distruttiva” messa in atto dallo stato maggiore dipietrista. La volontà di arginare “la spirale girotondina e antagonista di una forza che ha tradito le sue promesse liberaldemocratiche, centriste e legalitarie” ispira, nel novembre 2009, l’abbandono del giurista Pino Pisicchio che entra nell’Api di Francesco Rutelli. Risale al novembre scorso, invece, lo strappo consumato da Renato Cambursano, politico piemontese democratico-cristiano di lungo corso, che in dissenso dal gruppo vota a favore della manovra di bilancio del governo Monti.
Resta infine sospeso nell’orizzonte il compiersi del divorzio da parte di Luigi De Magistris, impegnato da tempo nella costruzione del “fronte arancione dei primi cittadini progressisti”, personalità troppo ambiziosa per restare imprigionato nelle maglie dell’Idv in un ruolo subalterno a quello del “capo”.
Ma le defezioni più polemiche per la gravità delle accuse rivolte all’eroe di Mani Pulite riguardano Nicola Tranfaglia e Elio Veltri. Motivando la propria decisione nel marzo 2011, lo storico denuncia “un regime interno fondato sul familismo e sulla gestione clientelare e ferrea da parte di un ristretto entourage che soffoca il merito e la competenza”. A colui che era stato nominato responsabile Cultura del movimento, l’ex pm avrebbe dichiarato che “la cultura non è una priorità e che quanto a strategia lui non ha nulla da imparare essendo l’unico con Bossi, il solo che stimi in Parlamento, ad aver fondato un partito”. Ancora più sferzanti le accuse lanciate da Veltri, a giudizio del quale “vi è una forbice sempre più aperta tra ciò che si dice e quello che si fa. Vengono mandate via dal partito persone integerrime e nel frattempo viene accettata gente di ogni risma: chiacchierati, indagati e condannati”. Bersaglio polemico dell’ex primo cittadino di Pavia è soprattutto la gestione dei rimborsi pubblici per tutte le elezioni dal 2001 al 2009, “finanziamenti che non vengono percepiti dal movimento ma dall’omonima fondazione creata da Di Pietro, dalla sua seconda moglie Susanna Mazzoleni e dalla tesoriera Silvana Mura”.
Le accuse di centralismo e familismo nel governo delle risorse interne e nella direzione politica di un movimento che il 9 maggio ha definito le sovvenzioni di Stato alle forze politiche come l’espressione di “una vergognosa ingordigia” e ha depositato in Cassazione una richiesta referendaria per la loro abrogazione, ricorrono periodicamente in coincidenza con abbandoni e rotture infuocati.
Ultima, in ordine di tempo, la denuncia presentata dall’avvocato penalista ed ex dirigente dell’Idv, Domenico Morace, sulla sparizione di 450mila euro di rimborsi elettorali destinati al partito in Emilia Romagna. Di Pietro e Mura, segretaria amministrativa del movimento e sua responsabile nella regione, affermano di non saperne nulla e promettono azioni legali contro Morace. Il quale rincara le accuse, evidenziando “analogie e similitudini tra il funzionamento del Cerchio magico al timone della Lega Nord fino a poche settimane fa e le strategie del gruppo di vertice raccolto attorno al capo assoluto che decide in totale discrezione le sorti dell’Italia dei Valori”.
È doveroso ricordare che fino a oggi nessuna delle accuse e delle iniziative giudiziarie promosse nei confronti dello stato maggiore dipietrista ha trovato sbocco in una sentenza di condanna legale o amministrativa. Elemento ancora più rilevante è che sul piano politico una simile ondata di denunce non ha affatto travolto né compromesso la carriera politica dell’ex pubblico ministero, che nonostante la spaccatura consumata con il Pd di Pier Luigi Bersani può contare su un bacino di consenso attorno al 5-7 per cento e continua a giocare un ruolo significativo sulla scena pubblica.
Riscuotendo tuttora adesioni e simpatie nell’universo giustizialista e giacobino, e nelle mobilitazioni che negli anni dei governi Berlusconi una rivista come Micromega e movimenti come il “Popolo Viola” e i “girotondini” furono in grado di promuovere, da quelle di Piazza San Giovanni e Piazza Navona al raduno del Palavobis di Milano. Un mondo che oggi appare ridimensionato e silente dopo il tramonto del Cavaliere, smarrito e alla ricerca di nuovi riferimenti politici, ma che soffre nel vedere l’eroe di Mani Pulite estromesso dal perimetro dello schieramento progressista.
È anche nella sintonia istintiva con settori ancora significativi dell’opinione pubblica che possono essere ricercate le ragioni della longevità politica di un personaggio dotato di una straordinaria propensione a resistere alle tempeste più violente, di tenacia e ostinazione nel sapersi reinventare continuamente, di innegabile tempismo con cui intercetta le tendenze prevalenti nella società. A partire dall’insofferenza per le politiche di clemenza sul fronte carcerario e dalla diffusa sensibilità per la propaganda basata sul binomio legge-ordine, che portano l’ex magistrato ad avversare duramente, a fianco del Carroccio e di Alleanza Nazionale, l’introduzione dell’indulto, anche per i reati finanziari, nel 2007.
Una battaglia che contribuisce ad aggravare le lacerazioni della fragile compagine dell’Unione prodiana, e che provoca lo strappo interno con la presidente delle Federcasalinghe Federica Rossi Gasparrini, favorevole al provvedimento di clemenza e poi confluita nell’Udeur mastelliana dopo che il suo nome viene pubblicato sul sito on line di Di Pietro accanto a tutti i parlamentari pro-indulto. L’amore per la popolarità, dunque, è una molla fondamentale delle sue iniziative, una chiave semplice e antica per comprendere e spiegare la sua indubbia capacità di rinascere e di trarre alimento dalle proprie difficoltà.
È grazie a una qualità propria dei grandi tribuni della storia romana e medievale oltre che dei principi di ventura del periodo rinascimentale, e agli spazi enormi messi a sua disposizione dai mass media nazionali, che Tonino Di Pietro percorre da protagonista il decennio iniziale del terzo millennio. La sua immagine e il suo linguaggio folkloristico e colorito, ricco di metafore contadine e di espressioni dialettali molisane, entrano a far parte dell’immaginario collettivo, e la formula rituale dell’incipit dei suoi interventi, “Noi dell’Italia dei Valori…”, diventa un sottofondo familiare nelle serate televisive degli italiani.
Forte di questa cassa di risonanza, l’ex pm esercita un ruolo determinante nella creazione dell’Unione capeggiata da Romano Prodi alle elezioni politiche del 2006. Non prima di avere sfidato il futuro capo del governo nelle consultazioni primarie per la designazione del candidato premier. L’esito però è assai deludente: Di Pietro si posiziona al quarto posto raccogliendo 142.143 voti e il 3,3 per cento dei consensi, alle spalle di Prodi, Fausto Bertinotti e Clemente Mastella. Al voto del 9 e 10 aprile il partito conquista il 2,3 per cento alla Camera e al 2,9 al Senato, grazie soprattutto all’eccellente risultato conseguito in Sicilia. A risultare decisiva è la presenza nelle lista dell’Idv di Leoluca Orlando, vero alter ego del leader in grado di disporre di un vasto e autonomo serbatoio di consenso, come confermato dalla sua recente e trionfale riconquista del Comune di Palermo. Ministro delle infrastrutture nel governo dell’Unione, l’ex magistrato si distingue per la decisione di sospendere la fusione tra Società Autostrade e la spagnola Abertis, a causa del “danno economico che lo Stato avrebbe subito dall’esecuzione del piano”.
Il vero capolavoro politico Di Pietro lo realizza però due anni più tardi, quando riesce a strappare al Partito democratico di Walter Veltroni un privilegio unico fra tutti i partiti. Solo all’Italia dei valori infatti il loft del Nazareno riconosce la dignità di formazione apparentata con i propri simboli e candidati per concorrere alle elezioni del 2008. Socialisti, comunisti, ambientalisti, vengono esclusi dall’alleanza riformista, mentre ai Radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino è consentito unicamente l’ingresso nelle liste del Pd. Il patto stipulato tra Veltroni e Di Pietro è inequivocabile: presentarsi in coalizione davanti agli elettori presuppone la costituzione di un gruppo parlamentare unitario e, in prospettiva di medio termine, la creazione di un unico grande soggetto politico democratico.
Anche grazie a questa promessa, l’Italia dei valori raddoppia i suoi consensi, ottenendo il 4,4 per cento dei suffragi, e in Molise arriva a superare lo stesso Pd. Ma l’impegno solennemente assunto e sottoscritto di fronte ai cittadini viene clamorosamente disatteso e rovesciato dall’eroe di Mani Pulite. Il quale decide subito di dare vita a gruppi indipendenti e separati dell’Idv, accentuando i motivi di dissenso e le distanze dai democratici in tema di giustizia, ordine pubblico, politica internazionale. E così, accanto all’opposizione barricadera contro le leggi ad personam approvate dal governo e dalla maggioranza berlusconiani, “che violano le prerogative della magistratura limitando la sua autonomia e imbavagliano la libera informazione”, e alla campagna per vietare la candidatura e la permanenza in Parlamento delle persone condannate in via definitiva, Di Pietro e la sua pattuglia si distinguono per una linea di assoluta ostilità alla missione militare del nostro paese in Afghanistan e alle politiche di intervento armato multilaterale contro i crimini e i massacri perpetrati in Libia da Muhammar Gheddafi.
Un’opzione, quella pacifista e neutralista, che vede il gruppo dell’Idv spesso isolato o affiancato agli uomini del Carroccio, in un Parlamento dove mancano le forze della sinistra “arcobaleno”. E che paga in termini di consenso e di visibilità mediatica, soprattutto nel momento in cui si salda con una strategia economico-sociale radicalmente anti-liberale e anti-liberista, affine all’orizzonte culturale della Cgil e della Fiom e attestata su una difesa intransigente dei pilastri del Welfare italiano. Ma la battaglia per mantenere inalterato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, contro l’innalzamento dell’età pensionabile, contro la concorrenza nel settore educativo e sanitario, contro la politica industriale della Fiat di Sergio Marchionne, non impedisce a Di Pietro di valutare positivamente la linea dura contro l’immigrazione clandestina promossa da Roberto Maroni alla guida del Viminale.
Sono questi i mille volti del partito che oggi ha ingaggiato una lotta senza esclusione di colpi con il Presidente della Repubblica, prima accusato di tenere un comportamento accondiscendente e remissivo nei confronti dei “ripetuti strappi alla legalità costituzionale” compiuti dal Cavaliere, poi individuato come l’ispiratore della bocciatura “politica” da parte della Consulta della richiesta referendaria mirante al ripristino del Mattarellum, e infine additato come il supremo rappresentante di “una Ragion di Stato contrapposta al perseguimento della verità sulle pagine più oscure del biennio di sangue 1992-1993”. Lo stesso biennio che vide nell’ex pubblico ministero l’indiscusso protagonista di una “rivoluzione giudiziaria” epocale. Rileggere le parole con cui Antonio Di Pietro ricorda la sua vita in quella stagione può forse illuminare ciò che oggi lo distingue da tutti gli altri personaggi pubblici: “Durante gli anni di Tangentopoli io non capivo niente. Stavo dentro al tribunale venti ore al giorno, non leggevo i giornali, non guardavo la tv. Sapevo solo che dovevo correre, incastrarne quanti più possibile prima che gli altri mi fermassero. Da piccolo sognavo di scrivere un rigo nella storia del mio paese. Volevo contribuire a sfasciare un sistema vergognoso, immorale”.