Ferragosto 1962-2012, “Il Sorpasso” compie 50 anni

Ferragosto 1962-2012, “Il Sorpasso” compie 50 anni

In quell’estate fiammeggiante morì forse il boom, lì in un ultimo avventato Sorpasso. Il capolavoro di Dino Risi compie mezzo secolo esatto: il film prende forma proprio in quel ferragosto del 1962, con il deserto canicolare di Roma (di volta in volta definita «cimitero», o «triste, umida e anti-lavorativa»), con Vittorio Gassman che attraversa l’Urbe svuotata con accanto una controfigura perché Trintignant non è stato ancora scelto, con la Città eterna trascinata insieme a tutti i suoi tipi umani (il sottoproletariato, la borghesia, i preti, le turiste, i campagnoli dell’agro) lungo la “strada della vacanza”, incontro alle prime cocenti delusioni dopo la sbornia del miracolo economico. Con le canzoni che incendiano gli autogrill e i lidi e le spiagge di Castiglioncello, e che per la prima volta sono usate come elemento essenziale del racconto sociale. Con i Bruno Cortona, faccendieri dai mille impicci, sopravvissuti e pronti a eternare le astuzie della Repubblica, perché al sacrificio, massimo o piccolo, soccombe sempre il più debole, come Roberto, mai il più sfrontato.

L’avventura della strana coppia è una scarrozzata verso nord (non a caso la prima versione della sceneggiatura si chiamava Il giretto). Protagoniste occulte di questa pellicola sono due figure che non a caso portano lo stesso nome perché hanno la stessa funzione narrativa: sono la strada e la macchina, entrambe di nome Aurelia. Sulla strada e sulla macchina si svolgono i destini brevi e infiniti (due giorni appena è il tempo della storia, 15 e 16 d’agosto) dell’avventuriero e del timido studente. Strada e macchina: nasce così, con questo film, il road-movie, genere che poi attecchirà in tutte le cinematografie, a cominciare da quella a stelle e strisce: non c’è da sorprendersi se a dichiarare ispirazione dal Sorpasso fu Dennis Hopper, autore del celeberrimo Easy Rider (The easy life era il titolo del Sorpasso nell’edizione americana).

Ma chi sono invece i due protagonisti palesi? Sono le due facce della stessa borghesia capitolina, quella non della produzione ma dei servizi, delle professioni. Bruno-Gassman va in giro con il permesso veicolare (più falso del falso, ma non si sa mai…) della Camera dei Deputati; tira la sua Lancia Aurelia B24 lungo le strade della penisola, le trucca il motore, le smacca la carrozzeria (sul lato ci sono diseguali macchie di vernice), la fa suonare di un clacson che disturba anche i morti. Roberto-Trintignant è invece un figlio dell’immenso rotondo generone romano installato alla Balduina, quartiere simbolo dell’emergente ceto medio benestante: studia per diventare avvocato, è fornito di buone maniere e discrezione, probabilmente si riconosce nel centrosinistra che ha colorato da pochi mesi (luglio ’62) anche il Campidoglio con il nuovo sindaco democristiano Glauco Della Porta chiamato ad approvare il Piano regolatore urbanistico, piano che in realtà regolerà ben poco del sacco edilizio in atto e in arrivo (l’uomo forte della giunta, e futuro sindaco, è Americo Petrucci, il più potente politico di Roma dopo Giulio Andreotti, di cui è un fedelissimo).

I due, Bruno e Roberto, si conoscono per caso, o meglio per l’invadenza di Bruno, invadenza che dissimula una solitudine terrificante, celata con battute a raffica, spacconate in serie, stile da Bar Sport (il santino sul cruscotto che ammonisce di non correre reca l’immagine della Bardot), strabordante appetito erotico e alimentare. La giornata di quel Ferragosto li porta a Civitavecchia per il pranzo, nel pomeriggio dai parenti di Roberto nella noiosa, perduta campagna di Maremma, poi di sera in Riviera al night e infine la notte a Castiglioncello. Sono le tappe della progressione geografica a settentrione (Risi era pur sempre un milanese, e mai va dimenticato l’apporto alla nostra settima arte di rinnegati professionisti padani come appunto lo psichiatra Risi, gli architetti Lattuada e Comencini, il commercialista Antonioni…).

A Castiglioncello si perde il panorama tra il monumentale, rustico e il pecoreccio che appartiene alla capitale e ai suoi estremi lembi laziali per entrare nell‘affluente Toscana dove si appalesano i cumènda di nome Bibi, dove ci sono i vip (Gassman era abituale frequentatore del luogo, e fu lui convincere Risi a girare lì per stare vicino alla famiglia), dove il boom mostra i suoi risvolti più profondi sulla società, perfino la famiglia: qui scopriamo la ancor bella e asessuata ex moglie di Bruno con la loro figlia, sveglia ninfa minorenne, accoppiata con un ricco industriale, più vecchio non solo di lei ma anche del genitore.

A Castiglioncello si svolge la parte più sfrenata del film, tra gite in barca, tentati amorazzi, partite di ping pong. E lì si carica di massima tensione il rapporto tra Roberto e Bruno, un pendolo che costantemente oscilla tra attrazione e repulsione. È interessante scorrere le pagine di Castiglioncello ’62: il nostro Sorpasso, libro della casa editrice Il Gabbiano, che ricostruisce come il borgo visse quell’estate e come si svolse la vita delle persone del luogo che parteciparono alla pellicola, eccitate dalla macchina del cinema, da quel film che sembrava uno dei tanti del genere comico-balnear-sentimentale. È una Castiglioncello che smaschera Bruno (Le fanfaron, vollero titolare i francesi il film), tra i Bagni Ausonia e i Villa Celestina, ne rivela il fallimento esistenziale, la desolazione personale, e poi in fondo lì anche la pur prestante Aurelia spider appare fuori (anzi: sotto) target, perché lì già si vedono sfrecciare con nonchalance Porsche, Ferrari, Maserati, M.G., Tryumph.

La strada e la macchina, Aurelia bifronte, ruggiscono, chiamano verso nord, sempre più su. E ormai anche Roberto ci ha preso gusto. E incita Bruno a correre, a sfrecciare, a sorpassare. Fino alla curva dannata di Calafuria, che destina il ragazzo al mare giù in fondo al burrone. Voleva essere come Bruno, assaporare un po’ del suo saper vivere la vita, sfrenatamente, sfrontatamente; è invece un morto lungo la strada. Un finale raggelante, che sovverte in una smorfia tutte le risate e i mezzi sorrisi per la guasconeria di Bruno e la timidezza di Roberto. Un finale tragico, di cui c’erano state però sapienti avvisaglie seminate lungo la strada (le turiste inseguite e poi sorprese in un cimitero, l’incidente mortale del camion, la zia dall’aspetto vedovile). Il copione, scritto da Risi con Ettore Scola e Ruggero Maccari (anche se Rodolfo Sonego, mai smentito né querelato, si accreditò la paternità del soggetto), splendidamente girato in quella fatale estate italiana del ’62, porta all’apice la commedia all’italiana e si innalza, amaro e nichilista, al di sopra dei generi, nell’olimpo del cinema di ogni bandiera.