Prima HSBC, poi Standard Chartered, Deutsche Bank, Credit Suisse, Royal Bank of Scotland, UBS e ora UniCredit. Ma la lista è ancora più lunga, se aggiungiamo anche le indagini ancora in corso e non ancora emerse. La guerra che gli Stati Uniti hanno iniziato a suon di giusta regolamentazione e disciplina negli affari finanziari ha assunto una velocità degna di nota negli ultimi due mesi. Con le elezioni presidenziali a novembre, il presidente Usa Barack Obama sta usando il Dipartimento di Giustizia per frenare i traffici illeciti di denaro. Ma il dubbio è che sia solo una mossa al fine di migliorare il suo appeal su un tema, la riforma di Wall Street, che lo ha visto perdere più di una volta le battaglie contro i banchieri.
In origine c’è stato lo scandalo Libor, che ha travolto la britannica Barclays. La manipolazione del London interbank offered rate (Libor), il tasso d’interesse interbancario londinese, era emersa dopo una sanzione della U.S. Commodity futures trading commission (Cftc), l’agenzia governativa statunitense che regolamenta il mercato di futures e opzioni, arrivata in concomitanza con una della Financial services authority (Fsa), l’organo britannico di vigilanza finanziaria. In tanti, a Londra, hanno attaccato gli americani, ritenuti colpevoli di aver traviato l’etica da gentleman dei britannici. Non è un caso che una delle frasi più udite nella City è contro New York: «Gli yankee pensano solo al profitto, vogliono solo fare soldi». Già, i soldi.
Il denaro che non dorme mai raccontato da Oliver Stone nelle due pellicole dedicate a Wall Street è al centro degli interessi delle autorità americane. In particolare, le negoziazioni con gli Stati-canaglia come l’Iran. «Pecunia non olet», potrebbe dire qualche banchiere. E lo hanno detto in tanti, dato che negli ultimi anni, fra i narcotrafficanti di HSBC e i denari iraniani di Standard Chartered, la prassi sembra essere stata quella dei traffici ad alto coefficiente di spregiudicatezza.
La tempistica delle indagini americane è sospetta. Due i motivi. Da un lato l’aumento delle tensioni fra Stati Uniti e Iran, con un controllo ancora più serrato su tutti gli affari che le società occidentali hanno fatto con il regime di Teheran. Del resto, è dal 1979 che gli Usa hanno imposto sanzioni economiche all’Iran. Le verifiche delle operazioni avviene tramite il US Treasury Department’s Office of Foreign Assets Control (Ofac) e molto spesso non si tratta di mero finanziamento di attività in Iran. Troppo facile da individuare dalle authority di vigilanza. In genere, invece, le violazioni riguardano il trattamento dei bonifici in dollari attraverso il circuito Swift (Society for worldwide interbank financial telecommunication). Al fine di colpire al centro il governo di Mahmud Ahmadinejād, gli Stati Uniti gli stanno facendo terra bruciata intorno. Dato che una delle risorse naturali dell’Iran è il petrolio, Teheran può esportarlo, al fine di ricevere dollari. Come? Semplice. Tramite quella che in termine finanziario si chiama U-Turn transaction, una scappatoia per aggirare le sanzioni imposte all’Iran. La National Iranian oil company (Nioc) vende petrolio in rial, la valuta locale, a una società. Il bonifico viene effettuato tramite una banca, come può essere Bank Saderat, una delle maggiori in Iran e inclusa nella black list degli Stati Uniti. Di qui i soldi, diretti verso un’altra entità finanziaria (spesso un trust off-shore), passano attraverso il circuito Swift e vengono convertiti in dollari, in modo che poi tornino alla base con una valuta differente. Se a trattare il bonifico è una banca non inclusa nella black list, si rischiano delle sanzioni. Ed è proprio qui che sta agendo l’Ofac americano, andando quindi a cercare chi ha operato indirettamente e direttamente con l’Iran. È questo ciò che è successo a UniCredit, secondo quanto emerge dai documenti interni di Piazza Cordusio, che già mesi fa aveva reso noto, vedasi la relazione finanziaria annuale consolidata 2011 e la relazione semestrale 2012, che la sua controllata HypoVereinsbank, acquistata nel 2005, era sotto indagine da parte delle autorità americane.
C’è poi il secondo aspetto, quello che più importa agli Stati Uniti. Il collasso di Lehman Brothers è ancora nella mente di molti. La banca guidata da Dick Fuld era la quarta regina di Wall Street. Il suo crac, avvenuto il 15 settembre 2008, ha condotto l’economia globale a un congelamento tanto profondo quanto prolungato, amplificando i già rilevanti squilibri dell’eurozona. Nella lunga corsa a trovare un capro espiatorio della crisi europea, è quasi comune l’opinione che tutto sia iniziato proprio a causa del fallimento di Lehman Brothers. Tuttavia, come circola negli ambienti finanziari europei e asiatici, c’è l’impressione che Obama voglia dimostrare quanto siano profondi i progressi fatti da Wall Street nel periodo successivo a Lehman Brothers. Colpa anche dello scandalo che ha colpito J.P. Morgan, la colossale (e ancora non quantificata a pieno) perdita su strumenti finanziari sintetici, le cui posizioni erano state aperte con troppa leggerezza da un trader, Bruno Iksil, già ribattezzato “London Whale”, la balena londinese.
Il giro di vite dei regolatori americani arriva in un momento particolare della storia americana. Il prossimo 6 novembre si apriranno infatti le urne per scegliere il prossimo presidente degli Stati Uniti. E l’attuale inquilino della Casa bianca vuole la riconferma, battendo lo sfidante repubblicano Mitt Romney, più vicino a Wall Street. Sono passati oltre due anni da quel 21 luglio 2010 in cui Obama siglò il Dodd-Frank Act, il programma di riforma di Wall Street. Uno l’obiettivo principale: evitare che possano esistere ancora banche Too big to fail, troppo grandi per fallire. Obiettivo mancato, se si guarda alla grandezza specifica delle attuali entità finanziarie americane. Da Goldman Sachs a Morgan Stanley, passando per J.P. Morgan e Citigroup, la banca per cui fu abrogato il Glass-Steagall Act nel 1999 (in vista dell’introduzione del Gramm-Leach-Bliley Act) che divideva l’attività bancaria tradizionale da quella d’investimento, il deleveraging è iniziato, ma procede a rilento. Non solo. La regolamentazione delle Collateralized debt obligation (Cdo), obbligazioni strutturate garantite da asset come mutui, crediti e titoli, è ancora in alto mare e solo il timore di nuovi casi-limite ha ridotto la presenza di tali prodotti nei portafogli della banche d’investimento. Come ha ricordato nello scorso marzo la Securities industry and financial markets association (Sifma), la lobby finanziaria statunitense, «l’esposizione delle banche americane ai prodotti finanziari strutturati si è ridotta, in via del tutto autonoma, del 7,3% su base annua, dopo una flessione del 12% nel periodo 2008-2011». Nessun riferimento al Dodd-Frank Act, che doveva essere il paradigma della nuova finanza di Wall Street e si è ritrovato azzoppato fin dalle prime bozze di discussione. L’esempio principale fu la Volcker Rule, cioè il divieto di negoziazione in contro proprio (proprietary trading) voluto dall’ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker, che ha duramente criticato il risultato finale della norma, considerato troppo astrusa e piena di scappatoie.
Il presidente Obama sta cercando di puntare sulla spettacolarizzazione delle azioni, come lo accusano i banchieri europei? O forse sta introducendo, a suon di regolamentazione, i paletti della nuova finanza americana? Probabilmente è la prima ipotesi a essere quella più vicina alla realtà. Del resto, come ha ricordato sul Sole 24 Ore Marco Onado, professore della Bocconi ed esperto di regolamentazione finanziaria, l’Europa è ben più avanti dell’America in tema di riforma della finanza. «Se fosse una partita di calcio, saremmo quattro a zero per noi», ha scritto ieri Onado. Forse è anche per questo che Obama, insieme al Dipartimento di Giustizia, sta spingendo così tanto per far vedere che Wall Street non è più la stessa del crollo di Lehman Brothers, fino a ergersi come paradigma della nuova finanza a livello globale. I dubbi sulla crociata americana rimangono.