In principio fu Mara Carfagna, in quell’estate rovente del 2008. Il terzo governo Berlusconi era ancora un neonato eppure il livello della contestazione era già altissimo. Casus belli, il primo di tanti: la nomina dell’ex showgirl a ministro, che provocò un’inarrestabile ondata di sdegno. Anche in quel caso le cronache dei giornali furono corredate da racconti di presunte intercettazioni tra Silvio Berlusconi e Fedele Confalonieri a proposito di eventuali favori sessuali che avrebbero favorito l’ascesa politica della donna salernitana. Ovviamente in tanti – giornalisti, politici e soliti noti – giurarono di aver ascoltato quelle telefonate.
Eravamo appena all’inizio di un’esperienza di governo che sarebbe stata caratterizzata per tre anni e mezzo dagli scandali sessuali del presidente del Consiglio e da un’ininterrotta pubblicazione sui giornali di telefonate che rendevano perfettamente il clima da basso impero che regnava tra Palazzo Grazioli e la villa di Arcore. Vi risparmiamo i particolari perché ormai li conosciamo a memoria, un po’ come la canzone del pulcino Pio.
Per mesi e mesi abbiamo familiarizzato con donne, donnicciole, portagente, magnaccia. Ma c’è voluta un’altra presunta intercettazione, che stavolta non coinvolgeva Mara Carfagna bensì Angela Merkel, per assestare il definitivo colpo da ko a un governo che stava trascinando l’Italia nel baratro della crisi economica. “Culona inchiavabile”. Questo il giudizio che Silvio Berlusconi avrebbe espresso al telefono con quel gentiluomo di Giampaolo Tarantini sulla Cancelliera tedesca. Anche in questo caso, come nel precedente, la telefonata non è mai stata ascoltata. Ma poco importa. A Napoli si dice voce ’e popolo, voce ’e Dio. E quindi crisi diplomatica fu, con conseguente fine dell’esperienza di un governo che ormai a tutto sembrava interessarsi fuorché alle sorti del Paese.
Qualche mese più tardi, è ancora un’intercettazione telefonica mai ascoltata – e che probabilmente mai doveva essere registrata – a essere al centro della scena politica italiana. La telefonata tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. La vicenda è stranota, parliamo della cosiddetta trattativa Stato-mafia nei primi anni Novanta, all’indomani degli attentati di Falcone e Borsellino. Anche le posizioni in campo sono definite e chiare a tutti. Sul punto, il Quirinale ha sollevato un conflitto di attribuzione di fronte alla Corte Costituzionale sostenendo che il capo dello Stato non possa essere intercettato e che quei nastri, di conseguenza, andavano distrutti.
Anche stavolta, come nei due precedenti casi, il contenuto della telefonata, anzi sarebbe più corretto dire il presunto contenuto sta emergendo. Anche stavolta, con mezze dichiarazioni di politici (Antonio Di Pietro) o presunti scoop di giornali, in questo caso Panorama. Che col pretesto (chissà poi quanto gradito al Quirinale) di proteggere Napolitano, spiattella chiaro e tondo che il presidente della Repubblica in quella telefonata avrebbe espresso giudizi poco lusinghieri (diciamola tutta, qualche frase poco carina) sul pool di Palermo, su Silvio Berlusconi e sullo stesso Di Pietro. Insomma, siamo agli stracci.
Come testimonia anche la replica del Quirinale, che parla di “autentici falsi” e giudica risibile la pretesa di ricattare il capo dello Stato. Ma si guarda bene dal chiedere a questo punto la pubblicazione delle telefonate
A noi è sin troppo chiaro che quello delle intercettazioni sia un problema gravissimo per il nostro Paese. Così come è altrettanto evidente che il giudizio su uno strumento e su una modalità informativa così invasiva non può variare a seconda dei giorni. E qui il dibattito prenderebbe la solita piega, ma ci fermiamo qui. E sottolineiamo come, del resto, sia salvo il diritto del capo dello Stato – e ci mancherebbe – di fare chiarezza sulle prerogative e le garanzie del presidente della Repubblica.
Il punto, però, è che a far da contorno a questa vicenda, che sta investendo in modo ormai difficilmente eludibile le alte cariche dello Stato, c’è un Paese che sta faticosamente cercando di assestarsi ma che non è affatto uscito dalla crisi che sta affliggendo l’Europa; e, soprattutto, un Paese che negli ultimi due anni ha visto crescere in maniera preoccupante la frattura tra i Palazzi e quella che qui volgarmente potremmo definire la gente comune. O, se volete più rispetto per la Costituzione, corpo elettorale.
E che c’entra, direte voi? C’entra, c’entra molto. Quel che appare poco chiaro a chi in queste settimana si sta schierando senza se e senza ma e, mi si consenta, con un po’ di paraocchi, in difesa della libertà del presidente della Repubblica, è che per vent’anni questo Paese è stato educato e alimentato in modo diverso. Non lo si può trasformare dall’oggi al domani, con una bacchetta magica, in un Paese dal sentimento anglosassone. Il fenomeno Beppe Grillo, il fenomeno anti-casta, hanno raggiunto livelli d’allarme che il cosiddetto ancien régime fa finta di non percepire.
Ancora una volta, direte voi: e che c’entra Napolitano? C’entra, tanto. Perché il presidente della Repubblica ha sbagliato in questi mesi. E con lui, i suoi consiglieri più fidati. Ha sbagliato sin dal giorno in cui rispose in maniera sprezzante alla domanda sul successo elettorale del Movimento cinque stelle. «Il boom? Ma quel boom? Io conosco un solo boom, quello degli anni Cinquanta». Seguito, poco dopo, da dichiarazioni poco lusinghiere su Internet («La rete non è il luogo delle decisioni politiche, che appartengono ai partiti»). Per raggiungere l’acme dell’errore il giorno della morte di Loris d’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale coinvolto in prima persona nella vicenda intercettazioni. Con quel comunicato intriso di rancore, comprensibile per chi perde una cara non per chi ricopre la prima carica dello Stato.
Insomma, se siamo giunti a questo clima una porzione di responsabilità, affatto piccola, ce l’ha proprio il presidente della Repubblica. Che dovrebbe unire e non dividere gli italiani. Sarebbe utile che i suoi “sostenitori” facessero ammenda su questo punto, invece di continuare ad andare al muro contro muro. Che, sia chiaro, non porterà il Paese da nessuna parte.
La domanda, a questo punto, è: come ne usciamo da questa situazione? Una domanda, ahinoi, senza risposta. Non resta che sperare in un verdetto da ragion di stato della Corte Costituzionale. Dare torto al Colle significherebbe aprire uno scenario terribile per l’Italia. Sarebbe auspicabile, però, che dopo il pronunciamento della Corte i vincitori incassino il successo avendo come obiettivo l’unità del Paese. Ogni altro atteggiamento sarebbe da irresponsabili.