Le miniere del Sulcis, pozzo senza fondo degli aiuti di Stato

Le miniere del Sulcis, pozzo senza fondo degli aiuti di Stato

Aggiornamento 31 agosto ore 18.33

La miniera della Carbosulcis non chiuderà a dicembre. È quanto emerge da una nota ufficiale del ministero dello Sviluppo economico al termine della riunione convocata presso il dicastero di via Veneto tra il ministro Passera, il sottosegretario De Vincenti, il presidente della Regione Sardegna Ugo Cappellacci e quello della Provincia di Carbonia – Iglesias, Salvatore Cherchi. «Si è deciso di rivedere il progetto per aggiornarlo e renderlo compatibile con le migliori tecnologie ed economicamente sostenibile», si legge nella nota, che prosegue: «A tal fine si è deciso di proporre al Parlamento la proroga della scadenza prevista dalla legge 99 del 2009 per il bando di affidamento della relativa concessione».

Venerdì i minatori del Sulcis marceranno su Roma, esattamente come il 20 dicembre del 1995. Diciassette anni dopo, il motivo della protesta non cambia: evitare la chiusura della Carbosulcis, società controllata al 100% alla Regione Sardegna e titolare della concessione per il giacimento di Monte Sinni, a pochi chilometri da Gonnesa, zona sud ovest dell’isola.

Proprio nel pozzo di Nuraxi Figus, come nel 1995, si sono calati da qualche giorno un centinaio di lavoratori, spingendosi a 373 metri di profondità con 350 kg di tritolo, decisi a restarci fino a quando – così come per l’Ilva di Taranto, dicono – l’Esecutivo non avrà trovato una soluzione credibile. In caso contrario, il 31 dicembre prossimo la cava chiuderà i battenti, nonostante i 600 milioni di euro che, complessivamente, si stima siano stati investiti dalla Regione – e quindi dai contribuenti – dal 1996 a oggi per tenerla aperta in attesa di un compratore, possibilmente con l’accento straniero. 

Entro il 31 dicembre prossimo la Regione dovrà indire un bando internazionale per la realizzazione di un impianto che utilizza una tecnica innovativa di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica (CSS) prodotta dalla filiera termoelettrica, in modo da non generare emissioni nocive nell’atmosfera e rispettare i parametri imposti dall’agenda europea per il 2050. Costo dell’opera 1,6 miliardi di euro, ovvero 200 milioni per 8 anni, finanziati dalla bolletta. Una modalità che non piace all’esecutivo, come dimostrano i proclami del ministro Passera sulle tariffe elettriche «troppo elevate», pronunciati nei mesi scorsi.

In attesa che la Sotacarbo, altra società controllata dalla Regione, stili le specifiche tecniche del bando – la scelta di affidarlo a una società sconosciuta invece che a un esperto internazionale ha suscitato qualche perplessità a Cagliari – Carbosulcis continua a chiudere i bilanci in rosso. «La perdita del 2011 ammonta a 25 milioni di euro, fino all’anno scorso la Regione trasferiva 30-35 milioni l’anno, mentre quest’anno l’unico trasferimento, che risale allo scorso aprile, è di 10 milioni di euro, ma entro fine anno sicuramente daremo un’altra quota. Comunque la riduzione rispetto al 2011 sarà del 50%», spiega a Linkiesta Alessandra Zedda, assessore all’Industria della giunta Cappellacci, impegnata in questi giorni anche sul fronte dell’Alcoa, che sta per abbandonare lo stabilimento di Portovesme, nei confronti del quale ci sarebbero altre due società interessate – ha detto ieri Cappellacci – oltre al colosso svizzero Glencore.

La scorsa finanziaria ha introdotto il divieto di coprire le perdite delle partecipate in house. Nonostante ciò, per Zedda ci sono ancora margini di manovra: «Il nostro programma di investimenti si basa ovviamente sul mantenimento della miniera. Enel è un interlocutore interessato che abbiamo sentito, ma riteniamo che il nostro progetto sia indipendente da Porto Tolle». Il progetto per la riconversione della centrale di Rovigo da olio combustibile a carbone pulito è visto come fumo negli occhi dalla politica locale, che teme di perdere i finanziamenti in arrivo da Bruxelles. Tuttavia, dal gruppo guidato da Fulvio Conti fanno sapere che «è la Regione che ha la responsabilità di promuovere un bando di gara internazionale per l’assegnazione del progetto», e che «Enel non potrà essere in nessun caso un interlocutore privilegiato» in un progetto che richiede in ogni caso considerevoli aiuti pubblici. 

Risale al gennaio del 1996 il passaggio delle miniere dall’Eni al pubblico, ma già nel 1994 uno degli ultimi decreti firmati da Ciampi prima della vittoria elettorale di Berlusconi, nel maggio dello stesso anno, assegnava 234 miliardi di vecchie lire (metà sborsate da Cagliari e l’altra metà dall’Ue) oltre a un finanziamento da 900 milioni di lire concesso dal vecchio Istituto mobiliare italiano (oggi Banca Imi) «ai fini dello sviluppo del bacino carbonifero del Sulcis». L’accordo prevedeva la realizzazione di una nuova centrale termoelettrica da parte di un raggruppamento internazionale guidato da Ansaldo Energia. Un progetto da 1.700 miliardi di lire, più altri 120 miliardi di fondi pubblici per la realizzazione delle altre infrastrutture – ampliamento della banchina di Portovesme, connessione ferroviaria con la centrale ed elettrodotto – necessari all’allacciamento alla rete Enel. Il tutto finanziato con un aumento della bolletta di 1,2 lire. Il famoso meccanismo “Cip6”, previsto dalla legge 80 del 2005 finita nel mirino della Commissione europea nel 2008, quando Neelie Kroes, allora commissario alla Concorrenza, aprì una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per gli “aiuti di Stato” concessi al settore elettrico, poi ritirata l’anno successivo, al contrario della famigerata legge 80 del 2005, che potrebbe costare circa 300 milioni alla Regione amministrata da Cappellacci.

L’impianto, da 450 megawatt, è rimasto sulla carta: all’epocale banche finanziatrici sollevarono dei dubbi sui ritorni, e il project financing naufragò. Ci riprovò la giunta Soru nel 2006, ma in assenza di meccanismi incentivanti anche questa gara andò deserta. Nel frattempo, la Regione ha siglato un accordo con la centrale Enel di Portovesme per acquistare sottocosto il carbone prodotto dalle cave del Sulcis Iglesiente. Il quale, avendo un contenuto di zolfo superiore alla media (6,5% rispetto allo 0,5% di quello prodotto dai giacimenti della svizzera Glencore, o quello polacco), deve essere miscelato con altri tipi di carbone per eliminare i rischi di autocombustione. Un aspetto, quest’ultimo, specificato ieri dalla società controllata dal Tesoro attraverso una nota diramata in serata. 

«I proventi della vendita all’Enel del carbone non bastano a compensare i 30 milioni di euro che ogni anno ci mette la Regione, perché ammontano soltanto a 9 milioni», dice a Linkiesta Mario Crò, segretario della Uil del Sulcis Iglesiente, che attacca: «Enel non solo riceve un incentivo per ogni tonnellata di carbone che acquista, ma utilizza gratuitamente la discarica interna della Carbosulcis e in più fa il prezzo che vuole a Eurallumina e Alcoa». Rilievi cui la società replica affermando che per il ritiro del carbone esiste un contratto bilaterale Enel-Carbosulcis che riflette il principio di equivalenza rispetto al mercato. Sull’energia prodotta dalla centrale di Portovesme, invece, da viale Regina Margherita specificano che non c’è alcun incentivo, ma soltanto un prezzo a parte sui servizi di rete (bilanciamento) quando ce n’è bisogno. L’obiezione di sindacalisti e politici sardi è che sull’eolico Enel – controllata dal Tesoro al 31% – è ampiamente foraggiata, per ben 13 miliardi di euro, dalle bollette degli italiani grazie agli incentivi sulle rinnovabili, mentre il progetto Css costerebbe soltanto 200 milioni l’anno. Non fosse che Enel ha un debito di 47,6 miliardi di euro, e Portovesme funzioni al 30% della sua capacità produttiva. Meglio dunque puntare sulla Glencore di turno, incrociando le dita e sperando nei ghiotti finanziamenti comunitari. 

[email protected]

X