«L’Italia non reggerebbe la verità sulla trattativa Stato-mafia»

«L’Italia non reggerebbe la verità sulla trattativa Stato-mafia»

Una congiura del silenzio operata all’unanimità dai grandi giornali e dai vertici istituzionali, per contribuire all’isolamento dei magistrati della Procura di Palermo e anteporre la difesa della Ragione di Stato all’accertamento della verità. Nelle pagine di apertura del Fatto Quotidiano risuona un’accusa durissima contro il trattamento di basso profilo e l’estrema cautela con cui i principali organi di informazione stanno affrontando il tema della presunta trattativa fra apparati dello Stato e Cosa Nostra, e del suo intreccio con la stagione delle stragi e degli omicidi eccellenti.

Le critiche avanzate dalla testata diretta da Antonio Padellaro coinvolgono anche il comportamento e le iniziative di quel Consiglio superiore della magistratura che fino a pochi mesi fa non esitava a contrastare e bocciare le leggi ad personam e la riforma dell’ordinamento giudiziario promosse dal governo Berlusconi, ma che oggi decide di aprire un fascicolo contro le parole pronunciate dal procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, nel corso della commemorazione di Paolo Borsellino.

Sulla validità e fondatezza del j’accuse del Fatto abbiamo voluto interpellare lo storico della politica Giorgio Galli, per il quale il comportamento tenuto dalla grande stampa trova una spiegazione logica e inquietante allo stesso tempo.

Professore, il Fatto Quotidiano denuncia l’ostracismo e la strategia del silenzio, promossi simultaneamente dalle più alte istituzioni repubblicane e da quasi tutti gli organi di informazione, contro le indagini della Procura di Palermo sulla presunta trattativa fra Stato e Cosa Nostra. Condivide una simile accusa?
Eviterei l’espressione “congiura del silenzio” e parlerei piuttosto di estrema cautela da parte delle principali testate italiane. Comportamento che a mio giudizio presenta una giustificazione logica. I temi toccati e sollevati dalle indagini della Procura di Palermo sono tra i più scottanti, poiché coinvolgono il passaggio fra le due fasi della storia repubblicana. La scoperta della loro gravità, in una fase di acuta crisi economica e sociale oltre che di profonda sfiducia e disaffezione nella politica, renderebbe intollerabile la realtà italiana. Che potrebbe rischiare un crollo di regime.

Le nostre istituzioni non sarebbero dunque in grado di sopportare il peso della rivelazione completa della verità su quella stagione? A tal punto è arrivata la loro debolezza?
Ritengo di sì, purtroppo. Fra il 2007 e il 2012 sono stati pubblicati tre libri assai interessanti. “Nelle mani giuste”, romanzo ricco di spunti di verità scritto da Giancarlo De Cataldo, “La Convergenza. Mafia e politica nella seconda Repubblica”, frutto di un’inchiesta condotta da Nando Dalla Chiesa, e “Il vile agguato”, ricostruzione documentata compiuta da Enrico Deaglio sull’omicidio di Paolo Borsellino e sull’incredibile vicenda processuale relativa alla strage di Via D’Amelio. Tutti e tre i volumi spiegano come il passaggio fra prima e seconda Repubblica sia avvenuto proprio grazie a una lunga serie di trattative fra apparati dello Stato e Cupola mafiosa: negoziati che alla fine hanno trovato il proprio sbocco nella creazione del soggetto politico Forza Italia. Un percorso segnato dall’azione e dal ruolo determinanti dei servizi segreti e degli uomini di Cosa Nostra. Gli stessi soggetti e gruppi che hanno giocato una parte decisiva nel mistero della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro nel settembre 1970, e che ciclicamente hanno operato in tutte le fasi cruciali della vita politica nazionale. Realtà entrambe fondate sulla regola del segreto e della massima riservatezza: fattori che rendono estremamente complicata la ricerca e la raccolta delle prove sul piano investigativo. Se però un quadro simile trovasse robusti riscontri probatori e logico-deduttivi grazie alle indagini dei magistrati palermitani sulla stagione di sangue dei primi anni Novanta, sarebbe difficile da sopportare per la realtà politica di oggi. Si tratterebbe di una scossa non indifferente per un mondo già in piena emergenza.

La “Ragione di Stato” dovrebbe quindi prevalere sulla ricerca di una verità che potrebbe essere dirompente?
Ragione di Stato è l’espressione utilizzata dal procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, per denunciare l’accerchiamento e l’ostracismo istituzionale e mediatico a danno degli inquirenti. Eugenio Scalfari, al contrario, ha invocato il rispetto delle prerogative del presidente della Repubblica per giustificare la necessità di distruggere il testo delle intercettazioni telefoniche tra l’ex responsabile dell’interno Nicola Mancino e il consigliere giuridico di Giorgio Napolitano, Loris D’Ambrosio. Riflessioni entrambe corrette e fondate. Ma lo scontro fra due punti di vista legittimi non può occultare un dato prioritario. Sono convinto che all’Italia dei nostri giorni la scoperta della verità possa giovare enormemente, e ritengo che i pubblici ministeri di Palermo meritino di essere sostenuti e incoraggiati. I giornalisti del Fatto certo esagerano nel linguaggio e negli accenti, ma nel contenuto delle loro critiche hanno pienamente ragione. La loro sacrosanta campagna per l’accertamento della realtà nel biennio 1992-1993, iniziativa degna della stampa libera delle democrazie più avanzate, tende a un obiettivo ben più importante rispetto alla necessità di tenere unite le forze che appoggiano il governo Monti.

Il Consiglio superiore della magistratura si è schierato apertamente dalla parte del Colle nel conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Consulta. Ora non esprime una parola a difesa della Procura di Palermo e apre una pratica nei confronti del pg di Caltanissetta, Roberto Scarpinato. Una contraddizione stridente rispetto ai tempi dell’opposizione intransigente contro i provvedimenti del governo Berlusconi in tema di giustizia.
Oggi è venuta meno la centralità del berlusconismo, un fenomeno che turbava e alterava il funzionamento del nostro sistema politico. Ma, come è evidente, i problemi profondi e strutturali che gravano sulle dinamiche istituzionali preesistevano alla discesa in campo del Cavaliere. Illudersi che la sua uscita di scena li abbia magicamente risolti è stato un gravissimo errore.  

(data di prima pubblicazione, agosto 2012)

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