Ma l’autarchia può davvero salvare l’Italia?

Ma l’autarchia può davvero salvare l’Italia?

L’Italia si scopre autarchica. Come un anno fa la classe dirigente italiana cerca di trovare una soluzione, tanto veloce quanto efficace, per la riduzione del debito pubblico italiano, un fardello da quasi 2.000 miliardi di euro. Dalla vendita dei beni pubblici al riscadenzamento del debito, passando per l’acquisto di bond tramite incentivi, l’obiettivo è evitare la richiesta formale di sostegno esterno. Le pressioni intorno al presidente del Consiglio Mario Monti si fanno via via più pesanti. Bruxelles, Francoforte e Washington vogliono vederci chiaro e avere rassicurazioni. Per ora, tuttavia, si è deciso di prendere la via dell’intervento domestico.

La situazione italiana è già difficile. Come ha riportato oggi la Banca d’Italia, il settore più autarchico è il mercato obbligazionario. La quota di bond italiani detenuti dalle banche italiane è infatti passato dai 302,5 miliardi di euro di maggio ai 316,1 miliardi di giugno. E dire che un anno fa, osservando i dati di Reuters Datastream, si era intorno a 280 miliardi di euro. Non è difficile spiegare il motivo. In seguito alle due operazioni di rifinanziamento a lungo termine della Banca centrale europea (Bce), gli istituti di credito italiani hanno avuto un incentivo all’acquisto di bond domestici per sostenere le emissioni nella prima parte dell’anno. «La nazionalizzazione dei mercati obbligazionari è un problema, dato che i rischi di mercato vengono frammentati», commentò Morgan Stanley in giugno.

Gli investitori stranieri, sebbene con qualche eccezione, erano già fuggiti tempo fa. Più precisamente, nella primavera del 2011. Secondo la European banking authority (Eba), l’ente di vigilanza bancaria europea, a dicembre 2010 l’esposizione delle banche europee ai bond italiani era elevata. Al primo posto c’era Bnp Paribas con circa 28 miliardi di euro, poi Dexia con 15,6 miliardi, Commerzbank con 11,7 miliardi, Crédit Agricole con 10,8 miliardi e Hsbc con 9,9 miliardi. Lentamente, questi valori sono andati calando. Colpa della crisi dell’eurozona e dei crescenti timori di una disgregazione dell’attuale assetto dell’area euro. Pesanti le riduzioni nei primi sei mesi del 2011, avvenute quasi tutte tramite l’acquisto di Credit default swap (Cds), i derivati che mitigano il rischio d’insolvenza di un emittente. Meno 8,3 miliardi di euro per Bnp Paribas, meno 2,5 miliardi per Société Générale, meno 1,8 miliardi per Commerzbank, meno 1,2 miliardi per Barclays. La tendenza è stata poi confermata per il 2012.

L’Italia non vuole chiedere aiuto formalmente. Troppo elevato sarebbe il costo politico di una richiesta di sostengo, si dice nei corridoi di Palazzo Chigi. L’impatto della sottoscrizione di un memorandum of understanding da parte del governo Monti prima delle elezioni porrebbe infatti i partiti politici di fronte a un bivio. Cavalcando il sentimento di repulsione che sempre più italiani hanno nei confronti dell’euro e della Germania, la campagna elettorale potrebbe essere giocata su un duopolio euroavversi ed eurofili.

Ecco perché quindi lo spirito autarchico sta prendendo il sopravvento sugli altri. La prima possibilità, quella sulla carta più semplice, sarebbe certo la richiesta di sostegno esterna. Il numero uno della Banca centrale europea (Bce), Mario Draghi, ha ribadito ancora durante l’ultima riunione dell’istituzione di Francoforte che l’Eurotower non deve essere tirata per la giacchetta nel caso di problemi dei singoli Paesi nel loro processo di consolidamento fiscale. Nel caso ci siano le condizioni, spetta solo ai governi chiedere il sostegno dei fondi europei di stabilità, lo European financial stability facility (Efsf) e lo European stability mechanism (Esm). Ma, in altre parole, l’ultima parola spetta a Roma.

Più interessante è invece la possibilità di un allungamento delle scadenze dei bond. Come spiegato dal docente della Duke University, che ha curato gli aspetti fondamentali della ristrutturazione del debito greco (e non solo) insieme all’avvocato d’affari di Cleary Gottlieb Steen & Hamilton, Lee Buchheit, ci sono i margini per adottare all’Italia il modello usato per l’Uruguay un decennio fa. «Un’estensione delle maturity è più plausibile piuttosto che uno scenario di hard default», disse Gulati durante la presentazione di un’analisi richiesta ai suoi studenti a Londra. Partendo dal presupposto che il 94% del debito italiano, circa 1.600 miliardi di euro, è disciplinato dalla legislazione italiana, i margini d’azione sono elevati per l’esecutivo. La normativa vigente fa riferimento al Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di debito pubblico (decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 2003, n. 398). Il ministro delle Finanze ha poteri quasi illimitati. All’articolo 3 del decreto spiega infatti che «nel limite annualmente stabilito dalla legge di approvazione del bilancio di previsione dello Stato, il Ministro è autorizzato, in ogni anno finanziario, ad emanare decreti cornice che consentano al Tesoro (…) di procedere, ai fini della ristrutturazione del debito pubblico interno ed estero, al rimborso anticipato dei titoli, a trasformazioni di scadenze, ad operazioni di scambio nonché a sostituzione tra diverse tipologie di titoli o altri strumenti previsti dalla prassi dei mercati finanziari internazionali». Un assist significativo per questa via.

Prima di arrivare allo scenario più pesante per gli investitori, cioè il riscadenzamento del debito, ci sono altre soluzioni. Una di queste è il possibile utilizzo della Cassa depositi e prestiti (Cdp) per sostenere le aste di titoli di Stato fra settembre e marzo 2013, come ha proposto l’economista Francesco Giavazzi. Dato che la Cdp ha in pancia le azioni di Terna e Snam Rete Gas, si potrebbe girare tutto il pacchetto alla Bce, tramite la licenza bancaria della Cdp, e acquistare obbligazioni governative. Una sorta di bail-in, invece che di bail-out. Eppure, la Cdp non ha una licenza bancaria, come spiega a Linkiesta un funzionario della Bce. Può, tuttavia, accedere alle linee di credito dell’Eurotower in quanto ente accreditato. Ma per ottenere risorse bisogna avere una dotazione di collaterali, in modo da fornirli come contropartita alla Bce. C’è poi un aspetto “effimero” che potrebbe frenare questa proposta. Come spiega il funzionario «una soluzione di questo genere sarebbe inevitabilmente percepita come un aiuto di Stato dalla Germania, che potrebbe opporsi con veemenza». E se così fosse, tutto sarebbe da rifare.

Andando oltre, nei salotti buoni di Roma e Milano è spuntata di nuovo la paura di una patrimoniale. Un’imposta straordinaria, come nel 1992, in modo da abbattere parte del debito pubblico. Sebbene se ne parli da tempo, l’entourage di Monti è consapevole degli effetti depressivi di questa soluzione. In un periodo in cui le tensioni sociali sono elevate, applicare una patrimoniale potrebbe essere la goccia capace di far traboccare il vaso. Se nel 1992 si decise di agire in questo modo, ora il clima è diverso. «Non è proprio una carezza, questo non è uno dei momenti più allegri. I contribuenti ora si devono mettere una mano sul cuore e una sul portafogli. Ma se riusciremo nei nostri sforzi la parola stangata la potremo mettere nel frigorifero», disse vent’anni fa l’allora ministro delle Finanze Giovanni Goria. Parole che ancora riecheggiano in più di una generazione di italiani. Ma a quel tempo c’era un governo eletto, mentre ora no. Se i vincoli procedurali dell’esecutivo di Monti a questa operazione sono pochi, quelli morali sono maggiori.

Il più spinto programma di consolidamento fiscale nel breve termine rimane la vendita di asset pubblici. L’idea, portata avanti anche dal ministro dell’Economia Vittorio Grilli nella lunga intervista al Corriere della Sera di alcune settimane fa, è quella di scendere sul mercato e piazzare i beni pubblici. In tal modo, ha argomentato Grilli, sarebbe possibile ottenere una riduzione del 20% del rapporto debito/Pil da qui al 2017. Le entrate, nelle previsioni del Tesoro, sarebbero di circa «15-20 miliardi di euro l’anno, pari all’1% del Pil». Tuttavia, restano da capire due fattori su tutti: i potenziali acquirenti e il margine di negoziazione che potrebbero avere. In un mercato sottile come quello di questi mesi, con un deleveraging bancario in corso, tutto potrebbe essere più complicato del previsto. La banca britannica Barclays ha infatti espresso dubbi che possano essere rispettate le aspettative. «È possibile che si vada verso una svendita di questi asset pubblici, il cui valore si è già deteriorato rispetto al 2011, quando venne effettuata la prima stima», spiegano gli analisti. Si potrebbe però procedere alla cartolarizzazione, sull’onda della poco lusinghiera esperienza di SCIP 1 e 2, terminate con una liquidazione da 1,7 miliardi di euro. Proprio per via di questo lascito, in via XX settembre sono restii a considerare una nuova securitization.

Aprire le porte al commissariamento de facto chiedendo gli aiuti dello scudo anti-spread o procedere per tentativi nella riduzione del debito pubblico, tenendo in mente la recessione sempre più profonda? La partita è più politica che altro. Del resto, anche le sei proposte taglia-debito raccolte oggi da Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera sono o difficili da attuare nel breve termine o eccessivamente pretenziose dal punto di vista politico o economico. Monti sa che la firma di un memorandum prima che finisca il suo mandato potrebbe avere due effetti. Da un lato, a fronte di una iniziale reazione avversa degli investitori, potrebbe vincolare chi verrà dopo di lui. Ma dall’altro potrebbe balcanizzare ulteriormente la politica italiana. I rischi sono elevati in entrambi i casi.  

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