Se la Grecia salta, la ricca Europa fa pagare il conto ai più poveri

Se la Grecia salta, la ricca Europa fa pagare il conto ai più poveri

L’attesa è a dir poco incandescente. Domani si riunirà il board della Bce e finalmente Mario Draghi comunicherà ai mercati “come” Eurotower ha intenzione di «fare qualsiasi cosa» per salvare l’euro. Le ultime indiscrezioni avvalorano l’ipotesi di una licenza bancaria all’Esm, il meccanismo permanente che l’anno prossimo prenderà il posto del fondo salva-Stati Efsf, in modo da poter impiegare i prestiti della Bce a leva, ma sulla Suddeutsche Zeitung  un portavoce dell’esecutivo tedesco nega con forza il supporto di Berlino.

Nel frattempo, in questi giorni i media della City londinese, tradizionalmente euroscettici, stanno conducendo una battaglia, a suon di editoriali, su due temi in particolare. Il primo riguarda le svalutazioni che l’istituto centrale di Francoforte dovrebbe effettuare sui titoli di Stato periferici che ha acquistato nell’ambito del programma Smp e dei bailout greci, mentre il secondo concerne la subalternità del Fondo monetario internazionale nella gestione della crisi dell’Eurozona rispetto alla Bce e alla Commissione europea.

Hugo Dixon, fondatore di Breaking Views, servizio di analisi e commenti dell’agenzia Reuters, ieri scriveva che l’Ue starebbe lavorando a un piano che rappresenta l’ultima chance per tagliare il debito di Atene, il quale prevede un haircut (un taglio al valore nominale) dei bond greci nel portafoglio della banca centrale europea. «Se la Spagna o l’Italia si trovassero nella necessità di ristrutturare il proprio debito», scrive Dixon, «gli investitori si preoccuperebbero meno di essere stati trattati ingiustamente». E non vedrebbero l’acquisto dei bond di Spagna e Italia da parte della Bce solo come un’occasione per alleggerire la propria esposizione sui debiti sovrani. 

Per la Reuters, Mario Draghi si trova in trappola: da un lato l’acquisto dei titoli di Stato di Spagna e Italia, con la conseguente contrazione del differenziale di rendimento rispetto al Bund, sarebbe un regalo ai politici per rallentare le riforme. E questo non piace al mercato. D’altro canto, non piacerebbe al mercato nemmeno subordinare, come vorrebbero i tedeschi, il supporto finanziario alla disciplina di bilancio dei Paesi che ricevono gli aiuti. Perché? Perché nella ristrutturazione delle obbligazioni elleniche i privati hanno iscritto a bilancio pesanti perdite, mentre la Bce in teoria ha realizzato un profitto, non svalutando i suoi attivi greci. Un “trattamento privilegiato” considerato “non corretto”. 

Tuttavia, chiedere alla Bce di svalutare i suoi asset ellenici sarebbe come chiedere al governo inglese di svalutare Royal Bank of Scotland. Il cui amministratore delegato, peraltro, potrebbe dimettersi in seguito allo scandalo legato alla manipolazione del Libor, pur essendo stato nominato da Downing Street. Ralph Atkins, a capo dell’ufficio di Bruxelles del Financial Times, rincara la dose oggi: «Come supererà Draghi il problema della seniority (la priorità di pagamento dei creditori, ndr) di un nuovo programma di acquisto di bond finalmente accettando le perdite sui titoli di Stato ellenici?». I quali, per la cronaca, ammontano a 50-60 miliardi di euro?

Sul tema c’è in realtà un’altra polemica sottaciuta ma altrettanto esplosiva. Da giorni la bibbia della City ha colto l’occasione della lettera di dimissioni presentata da Peter Doyle, dirigente del Fondo monetario internazionale da vent’anni, per attaccare senza mezzi termini quello che lo stesso Doyle nella missiva chiama «Europe bias», cioè la trazione europea di un ente sovranazionale la cui capacità di finanziamento non sta certo a Bruxelles, ma a Pechino o a Brasilia, puntando il dito contro «l’illegittimità del processo di selezione» dell’attuale direttore generale Christine Lagarde. Il Financial Times, con una column a firma di Arvind Subramanian, ex dirigente Fmi, ora fellow al Peterson Institute, e poi con un editoriale, dal titolo che non lascia spazio all’immaginazione, “Il Fmi può finire la sua agonia greca”, ha tacciato l’istituzione di Washington di «non aver fornito una leadership intellettualmente indipendente, soprattutto sulla crisi dell’eurozona, e di non essere preparata a dare stabilità nella prossima crisi locale».

La conclusione del Ft su Atene, ormai sull’orlo della bancarotta – in agosto dovrà ripagare bond per 3,2 miliardi, in teoria grazie ad un’altra tranche di prestiti europei sulla quale i leader comunitari non si sono ancora espressi – non lascia spazio a dubbi: «A conti fatti il Fmi ha fatto bene ad assumersi il rischio di farsi coinvolgere nel salvataggio della Grecia. Ha fornito un’ineguagliabile competenza tecnica e ha cercato di portare un po’ di realismo nel processo. Ma i rischi per la sua reputazione hanno ora iniziato a prevalere sui pochi vantaggi del coinvolgimento. L’Eurozona ha soldi, e ha bisogno di un consulente imparziale, e schietto, e non di un creditore cooptato. Per questo il Fmi dovrebbe trovare il modo di uscire da ulteriori finanziamenti alla Grecia». 

Parole che pesano come macigni. Finora l’Europa è costata quasi100 miliardi di euro al Fondo guidato da Christine Lagarde, tra aiuti e prestiti bilaterali. Nell’ambito del G20 di Los Cabos, ne è stata inoltre aumentata la dotazione a 430 miliardi di dollari. Peccato che queste nuove risorse non sarebbero comunque sufficienti in caso di default spagnolo o peggio ancora italiano. «Più il Fmi continuerà a partecipare a un salvataggio in cui non crede, maggiore sarà il costo reputazionale, e minore il supporto fuori dalla zona euro». Fmi significa in primis Usa, Brasile, Cina e India. Paesi da cui l’Europa, Germania compresa, non può prescindere a livello di export. Più delle svalutazioni sui titoli ellenici, è il timore che Dilma Rousseff o Manmohan Singh si stufino della melina di Bruxelles su Atene a dover preoccupare i leader europei. L’Europa si è fatta imprestare soldi che in realtà avrebbe, da Paesi più poveri di lei. Se adesso il Fmi dovesse subire delle perdite sulla Grecia, vorrebbe dire che la ricca Europa ha fatto pagare il conto dei suoi guai ai paesi più poveri. Una recente dimostrazione è la campagna mediatica scatenata in India contro i 10 miliardi erogati dal Paese appannaggio dell’Europa. 

Twitter: @antoniovanuzzo