Venezia. Bizzarro animale il talento; bizzarro più ancora quando fa perdere le proprie tracce, o svapora, o s’allontana in scia come una cometa. Che cosa ci siamo persi in tutti questi anni, nei quali Michael Cimino non ha fatto film? La proiezione de “I cancelli del cielo”, nella versione rimasterizzata e approvata dall’autore, lascia una strana impressione, quella che solo certi grandissimi artisti danno (per esempio Orson Welles): l’immensità dimezzata.
“I cancelli del cielo” è il suo film maledetto, quello che lo trascinò nel gorgo dell’insuccesso. Non ha mai voluto vederlo, perché non voleva riconoscere una pellicola amputata di oltre un’ora dai produttori. Mai, fino a oggi: c’era anche lui in Sala Perla. Lui che a 72 anni sembra una specie di maschera giapponese, un esperimento di lifting, magro come un chiodo, nascosto dietro enormi occhiali marrò. Commosso nel raccogliere il lunghissimo applauso finale del pubblico. Per lui, il grande Cimino. Lui che ormai quasi 35 anni fa inchiodò gli spettatori con la barbarie del Vietnam che gli valse cinque Oscar con “Il cacciatore”. Ma quando farai un altro film, Mr. Cimino? Farai brillare ancora la tua stella? Sperando di sbagliarci, temiamo che qui a Venezia difficilmente rivedremo qualcosa di così potente come “I cancelli del cielo”.
Una grande storia d’America, ambientata nel 1890, con un cast da commozione: Kris Kristofferson, Christopher Walken, Isabelle Huppert, Jeff Bridges. È un’America piena di rumore e fumo e fango. L’America dei ricchi che vogliono far fuori i poveri, ladri di bestiame e anarchici, pericolosa minaccia alla ricchezza senza eguaglianza. È l’America delle liste nere, e del potere che dà copertura alla sopraffazione e all’ingiustizia. E alla fine non resterà che il rimpianto per un Paese che poteva essere diverso. Un capolavoro amaro, violento e struggente, un grande romanzo scritto con lo stesso inchiostro dei capolavori di Tolstoj. Impossibile non amare Cimino.
Una specie di rimpianto, per quanto in forma minore, viene anche a vedere l’oggettivo talento solo in parte espresso di Ray Liotta. Il quale non si capisce perché debba far parlare di sé e del suo lavoro una volta ogni lustro e sia invece così sottovalutato. Lo ritroviamo in un solido, quadrato, preciso, ben fatto film di mafia, “The Iceman”. Liotta non è il protagonista, ma riveste un ruolo importante. Certo, direte, sempre mafia, per “quel bravo ragazzo” indimenticabile. Vero, Liotta avrebbe di suo un campo espressivo da coltivare ad ampia distesa, ma se ti capita un film come questo non ti puoi proprio lamentare. Lo firma Ariel Vromen, forse non possiede il timbro del capolavoro, ma ha una sincerità e un protagonista che non si scordano. Michael Shannon interpreta tale Kuklinski, un polacco che per tutto il film viene chiamato così, “polac”, è grosso come una quercia, parte come riversatore di film porno nell’America degli anni Sessanta (il mercato è in mano alla criminalità) e diventa uno dei più gelidi e spietati killer della mafia americana.
È una storia vera, raccontata con una tensione e un senso del tempo che solo il cinema americano al suo meglio è capace di restituire nei biopic. Il polacco ne accoppa cento, prima di essere arrestato. Liotta è il suo scopritore, e poi colui che lo distrugge (e va ancora bene che non riesca a uccidere lui e la famiglia). In un film scritto benissimo, al redivivo Ray toccano battute come queste: “So che la vita è dura, ma ti lamenti con l’uomo sbagliato”. Non stupirebbe se “The Iceman”, forte anche di una Winona Ryder molto in parte, divenisse un piccolo cult.
Quanto al concorso, pare raccogliere consensi il francese “Superstar”, storia di un uomo che diventa non si sa come (non è proprio spiegato) celeberrimo grazie alla tv e al web, ma il successo – che lui non vuole – poi lo stritola. Meccanismi infernali, tra squali del piccolo schermo e paranoie di massa (robe comunque sempre meno agghiaccianti del consueto panorama umano della televisione pomeridiana italiana). E poi, dopo “The Truman Show”, il cinema ancora non è riuscito a offrire una riflessione di pari livello sulla fama, il ruolo pubblico dell’uomo comune, l’illusione catodica. Un conto è il perfetto Peter Weir, un altro il perfettino Xavier Giannoli. In ogni caso, eccezionale l’attore protagonista, Kad Merad, da premio.