Da qui sembra tutta un’altra città. Le case coloniali dai colori sgargianti fanno posto ai palazzi in stile sovietico. Il folclore delle vie del centro dell’Havana vieja e il suono della rumba sono spariti insieme alle teste bionde dei turisti tedeschi e alle cadillac sgarrupate. Non ci sono persone per strada, niente carretti con i cavalli o file interminabili per entrare in banca. Il taxi corre veloce lungo il Malencon che costeggia lo Stretto della Florida. Sui muri non ci sono nemmeno più gli slogan della rivoluzione o i manifesti con il faccione del Che che fuma il sigaro. Non ci sono più i venditori di mango e nessuno ti strattona per farti cenare nel suo ristorante. In questa zona, circolano solo macchine con la targa blu, statale. Tutto è pulito, non vola una mosca. Benvenuti a Playa, quartiere residenziale dell’Havana dove vivono i dirigenti pubblici, i funzionari, gli ambasciatori, i quadri del Partito comunista di Cuba e le forze armate della rivoluzione insieme ai loro figli, alle loro mogli, alle loro madri e sorelle.
L’appuntamento è fissato per le sette. Dopo cena, Anya e Layla mi accompagneranno all’aeroporto José Marti. Suono il campanello dell’appartamento del terzo piano. Il cognome è scritto a matita. Mi apre una bambina alta un metro che in mano tiene un mazzo di carte francesi. Sta giocando con le amiche seduta sul pavimento con le gambe incrociate senza scarpe. «Siediti», mi ordina. «Ma io veramente cerco Layla, c’è?», «Espera» mi dice mentre lancia uno sguardo severo e poi scappa di corsa dietro l’angolo. «Layla è in ritardo, aspettala qui». Da brava ubbidisco e mi appoggio su una poltrona ma vengo pizzicata alla testa da una foglia. Venti, forse trenta piante addobbano il salotto. Ogni casa cubana che si rispetti è piena di vasi e fiori. Arricchiscono la stanza e costano poco. In casa dei cubani poi c’è sempre un gran via vai di gente. Questa è la casa del padre di Layla, un ex militare delle forze armate rivoluzionarie morto qualche anno fa. Lei vive con Maciel, il suo compagno, con Anya la sua amica, con la madre, il nipote e la nipotina.
Intere generazioni dividono gli appartamenti perché a Cuba non esiste un mercato immobiliare dato che le case appartengono tutte allo Stato che le distribuisce. Una per famiglia. Non esiste un business degli affitti perché i costi sono proibitivi. Novanta dollari al mese è l’ottimo stipendio di Maciel ma un affitto ne costa sessanta. Quindi alla fine succede che figli, genitori, nonni e nipoti si ritrovino a dividere tutti gli stessi spazi. Qualcuno racconta che questo costituisce un problema per le giovani coppie che spesso divorziano perché non riescono a costruire una vita propria. Ma Layla e Maciel stanno ancora insieme. «Con mio padre – racconta – ho visto Fidel. Una volta sola però. Ero piccola. Ricordo questo omone circondato da gente vestita di verde».
Layla e Anya, le amiche, si sono conosciute sui banchi di scuola. All’inizio Non erano d’accordo su nulla. Ventinove anni, bionda, carnagione chiara e occhi blu, la prima è cresciuta a pane e rivoluzione. Le è sempre stato spiegato che «Fidel è uno bravo, che il socialismo ci salverà dal capitalismo». Parla italiano ma non è mai stata in Italia. L’ha imparato «sulle riviste e sui libri che i turisti lasciano qui e là e poi guardando la televisione». Mentre chiacchiera, Layla prepara banane fritte, porco al forno, riso con fagioli neri e taglia l’avocado. È tutta sudata perché fa un caldo terribile e non c’è il condizionatore. «Quelli li mettono solo negli alberghi per i turisti però Fidel ci ha ordinato di cambiare i frigoriferi e comprarli a risparmio energetico. Noi cubani moriamo di caldo ma almeno non inquiniamo». Stappa una bottiglia di Crystal, la birra cubana che ho portato per cena.
Intanto tiro fuori dalla borsa un libro. Lo porgo ad Anya che è appena arrivata. Un amico italiano mi ha pregata di consegnarglielo. Nelle biblioteche, a Cuba, è possibile consultare solo libri scelti dal regime. E quei testi che entrano di nascosto per posta vengono distrutti alla dogana affinché «nessuno possa imparare l’arte della critica». Anya ha 29 anni, i capelli corti neri, gli occhi vispi e la carnagione olivastra. I genitori vivono in campagna, ad ovest, a Pinar del Rio. Al contrario di Layla è da sempre una cattolica praticante, non è mai stata comunista e l’hanno battezzata di nascosto. Si muove con un sidecar prestato dallo Stato che dovrà riconsegnare quando avrà finito di lavorare. Fa l’informatica. I compagneros lo chiamano “lavoro volontario”. I tecnici la chiamano pianificazione.
Supponiamo che per l’anno in corso manchino 100 medici, 30 professori, 20 commercianti e 400 contadini. Lo stato indirizzerà gli studenti verso questi settori così da coprire i “buchi”. Anya capisce l’utilità ma non ci sta. «Perché nella vita voglio insegnare filosofia politica, così mi tarpano le ali». Anya e Layla sono amiche. Due dissidenti nel cuore del quartiere di Stato. Nel Movimento di Liberazione Cristiano hanno trovato il loro partito. E brucia nel profondo la recente morte di Oswaldo Payà, cattolico cubano morto accidentalmente – dicono – dopo essersi schiantato con la macchina contro un albero. Nel 1998, lanciò il progetto Varela: una petizione per reclamare maggiori libertà. Aderirono più di 25 mila cubani, il doppio del numero necessario per convertire il testo in legge. Tra questi c’erano anche le firme di Layla e Anya. Inutili perché il testo non è mai stato considerato. Grazie alla chiesa cattolica Anya ha studiato un anno a Firenze. E lì ha fatto grandi scorpacciate di libri e autori. Se li ricorda tutti i “non comunisti”, quelli che fanno filosofia ma non la pensano come Marx.
Dopo il dolce al limone, ripuliamo la tavola. Usciamo di casa e Layla mette la mia valigia nel cofano della sua Lada vecchia dal cui tubo di scappamento esce fumo nero come la pece. Ha la targa gialla, è un’auto privata ma sta sempre ferma. Saliamo in macchina. «Lo so che a voi italiani suona strano perché immagino ne avrete abbastanza del Vaticano. Da noi però la religione ha un altro valore. Non è solo liturgia, è una boccata d’aria. E poi è l’unico canale che abbiamo per andarcene perché indicono bandi e borse di studio per le università straniere».
Tutti hanno un lavoro a Cuba ma nessuno può fare carriera. Tutti hanno una casa a Cuba ma nessuno la possiede. Tutti hanno un tozzo di pane a Cuba ma se ne vuoi due non puoi comprarli perché non ti bastano i soldi. Nelle stanze degli oratori i giovani cubani parlano di questo. Hanno staccato dalle pareti la fotografia di Che Guevara e «mi chiedo» dice Maciel «com’è possibile che in Europa durante le manifestazioni per la pace si sventoli la bandiera con la sua faccia scordandosi che in mano Ernesto aveva il fucile e non il fazzoletto bianco». Fanno politica senza rischiare un’accusa per tradimento. Poi, clandestinamente, organizzano dibattiti con esponenti di altri partiti, di altri paesi. Proiettano film e ne parlano, accedono gratuitamente ad internet e leggono la Bbc.
Arriviamo all’aeroporto. Sono le 22,30. Anya mi bacia e mi porge un regalo. Pasta de guayaba, un frutto cubano. Stringe gli occhi per non piangere, perché chissà quando ci rivedremo. Dico a Layla e Maciel che sono benvenuti a casa mia quando vogliono ma mi accorgo di aver fatto una gaffe perché tanto non verranno mai.
Cuba non è cambiata per niente. Raul è succeduto a Fidel ma al di qua del gate il socialismo è sempre reale. È reale l’arretratezza. Sembra l’Italia degli anni ’50. Le donne vanno ancora a spasso con i bigodini fatti con i rotoli di carta igienica. Nelle farmacie, orgoglio della nazione, sugli scaffali ci sono ancora le ampolle riempite di liquidi fosforescenti come se stessero giocando al piccolo chimico. E poi, dalla porte semi chiuse delle case, si scorgono gli schermi dei televisori tutti accesi sullo stesso canale. L’uso del cellulare è stato autorizzato solo l’anno scorso quindi tutti corrono per ricaricarlo che se non lo fai dopo un mese ti scade la sim ma nessuno lo usa perché essendoci solo un operatore costa troppo.
A Cuba i disoccupati sono lavoratori “disponibili”, la pubblicità è propaganda. E poi per strada le donne ti fermano e ti chiedono le “cremite”: i campioncini che le occidentali ricevono gratuitamente nelle profumerie. Impazziscono per i profumini spray che fanno molto donna. Accanto ai contadini che ogni giorno “vendono” parte del loro prodotto allo Stato, unico compratore, e che tagliano le erbacce ancora con l’ascia, c’è il turismo. Che però fa bene solo a chi maneggia la moneta commerciale. A Cuba è in vigore il doppio regime monetario. Le banconote per i turisti valgono come l’euro. Quelle locali invece non valgono (quasi) niente. Per questo a Cuba sopravvive un’enorme economia sommersa, nera e parallela. Per questo a Cuba, anche chi ha una casa, un lavoro e una vita assicurata dalla mano dello Stato, alla fine tenta la fuga per mare.
Sono le 23. Mi metto in fila per il controllo al varco emigrazione. Due file più in là, un gruppo di sei forse sette figli della rivoluzione con la mano salutano qualcuno che ha appena lasciato il gruppo e sta per oltrepassare il varco. Salutano una giovane donna dalla pelle chiarissima e gli occhi azzurri che, davanti a me, stringe nella mano un passaporto francese. In braccio ha una bambina che a lei non assomiglia proprio. Ha gli occhi scuri, la pelle scura e il passaporto cubano. Assomiglia piuttosto al ragazzo che le accompagna. Un cubano dagli occhi azzurri anche lui che alla mano sinistra porta una fede, identica a quella portata dalla giovane francese. Sembrano sposati.
Un cubano con un’europea. Ce ne sono tantissimi. Forse per amore forse perché è l’unico modo per scappare dal totalitarismo. Forse per entrambe le ragioni. Insieme i due innamorati quella bimba la stanno portando via mentre sorridente e inconsapevole con la manina saluta chi resta. C’è la nonna, forse qualche zia e chissà – nascosta – anche la vera mamma. Una cubana qualsiasi disposta a vedere sua figlia emigrare pur di salvarla.