Alla sedicesima edizione dopo il primo debutto nel 1997, il Festivaletteratura di Mantova si è mosso oltre la marcatura stretta del terremoto che ha reso inagibili molti edifici storici fuori e dentro le mura urbane. La sfida resta aperta e, nonostante il carico asfittico di chi dichiara che con la cultura non si mangia, i 221 incontri programmati per il 2012 hanno subito solo un’alternativa di sede e la rinuncia ad alcune rockstar della scrittura, con il valore aggiunto di un risanamento sempre alto e aperto al dialogo. Una corrente di idee che ha coinvolto bibliobus circolanti, lezioni di fisica e finanza, dibattiti sulla fame sostenibile e la forma racconto, riletture dei classici, riflessioni sulla fruizione e il rapporto tra parola e immagine, come sulla nuova marginalità dell’Occidente, solo per citare alcuni tra i percorsi di una mappa che ha fatto da apripista in Italia.
La rinascita della città virgiliana si è affidata a una tradizione rinnovata di presentazioni, dibattiti, workshop e scambi di ruolo tra autori e lettori per rispondere una crisi non esclusivamente economica, ma piuttosto delle memorie. Prova ne è il fuoco attorno alla poesia che, accanto al ricordo di contemporanei come Wislawa Szymborska e David Maria Turoldo, ha previsto appuntamenti dedicati al cinquecentesimo anniversario delle letture cortigiane dell’Orlando Furioso. Al pubblico, ancora una volta, è stata affidata la responsabilità di un tragitto d’ascolto tra le voci di poeti italiani come Pierluigi Cappello, chiamato sia a scegliere e rileggere un brano del capolavoro dell’Ariosto, sia a spartire la propria destinazione poetica e vitale.
Se dunque la scrittura difende la responsabilità del risveglio intellettuale e dello scambio, a Mantova i più di sessantamila visitatori e gli appuntamenti affollati tra scenari storici recano il segnale di una battaglia mai morta. Lo spazio per versioni di favole e libri un tempo osceni, ma anche per la storia nazionale ripescata in indagini d’archivio. Interessa a proposito fare luce su un appuntamento alle spalle dei ritratti dei premi Nobel Toni Morrison e Seamus Heaney: la ricostruzione di una tra le pagine più cupe della Prima Repubblica italiana, grazie ai ritrovamenti in tre fasi successive degli scritti del sequestro Moro dal 1978 al 1990. Un non detto che ha smesso di interessare le contingenze, ma che trattiene i germi di complotti e trattative fitte di ricatti e testimoni freddati.
Il giornalista Miguel Gotor — autore di Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano (Einaudi, 2011) — affiancato da Michele Di Sivo dell’Archivio di Stato di Roma, e da Bruno Manfellotto, direttore de L’Espresso, ha guidato il pubblico sui cocci aguzzi di una tragedia che vede protagonisti i volti istituzionali messi sotto scacco da una politica di alleanze trasversali. Il memoriale Moro, nascosto nell’intercapedine di un muro di Via Monte Nevoso a Roma e fatto ritrovare per la terza volta nel ’90 completo di 421 documenti, di cui due originali e il resto fotocopie, ha portato a galla la punta di un iceberg cui la “prigionia murata” del presidente della Democrazia Cristiana allude con persistenza provata.
Si tratta di uno stile sorvegliato di “soggezione attiva” nei meandri della più complessa battaglia dei poteri tra la presidenza del Consiglio di Giulio Andreotti e l’Arma dei Carabinieri guidata dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Un’operazione che risente sia di un sequestro classico per mano delle Brigate Rosse, sia dell’utilizzo di missive per un’operazione spionistica destinata a raccogliere informazioni riservate riguardanti apparati nazionali e internazionali sul filo degli equilibri dell’approvvigionamento petrolifero nel Mediterraneo.
In questa teoria dell’assenza, diventa così essenziale il lavoro di collazione degli scritti. Un sottosuolo di misteri e gialli riemersi a trentaquattro anni di distanza da una vicenda in cui Moro — sostiene Gotor, esperto di saperi cinque-seicenteschi — attraversa le fasi di un sacrificio martirologico: dalla devozione assoluta alla ragion di Stato, alla propaganda politica fino alla resa esiziale in un’ultima lettera alla moglie. Un caso che paventa da ultimo l’ipotesi di un’opposizione antipolitica pronta a giovarsi di gruppi disposti a uccidere per impedire l’avanzata delle forze popolari e unite di DC e PCI.
L’impazzimento istituzionale e i rapporti di forza sono tra le armi che alimentano anche molte delle reazioni postcoloniali. Squarci di ossessione classificatoria sempre più inadeguata a confinare i popoli in etnie e identità circoscritte da cui gli antropologi Jean-Loup Amselle e Marco Aime hanno messo in guardia in altra sede del festival. L’Occidente dominatore di Michel Foucault che individuava un legame tra sapere e potere non smette quindi di fare i conti con un nazionalismo culturale che nega più volte il diritto di scrivere e comunicare nella propria lingua materna. L’egemonia si trasforma in buio pesto sulle particolarità di un bagaglio comune che dovrebbe incitare all’universalismo, laddove proprio operazioni come l’invasione dell’Afghanistan, prima sovietica e poi statunitense, dimostrino il fallimento dei domini dall’alto.
Chiamato a Mantova a tracciarne un’esperienza diretta di corrispondente di guerra internazionale, Valerio Pellizzari ha condiviso infine pubblicamente con Mario Dondero quel credo che fa appello al giovane inviato e fotoreporter: il coraggio di una mobilitazione che scava e rifiuta facili concessioni a un giornalismo embedded.
XVI^ EDIZIONE DI FESTIVALETTERATURA MANTOVA
dal 5 AL 9 SETTEMBRE 2012
www.festivaletteratura.it
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Giulio Anselmi, Valerio Pellizzari e Mario Dondero durante l’incontro Il cimitero degli imperi