“A volere la morte di Dalla Chiesa non fu solo Cosa Nostra”

“A volere la morte di Dalla Chiesa non fu solo Cosa Nostra”

Mai fino a oggi un alto rappresentante della giustizia aveva trovato la forza di pronunciare parole durissime e impegnative su una pagina cruciale della storia repubblicana. La riflessione compiuta dal procuratore nazionale antimafia Piero Grasso in occasione del trentesimo anniversario dell’omicidio del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa solleva il velo, per la prima volta in forma ufficiale, sui tanti misteri dell’eccidio perpetrato dagli uomini di Cosa Nostra il 3 settembre 1982 a Palermo. Una strage in cui, «come in tutti gli assassinii eccellenti è possibile riconoscere causali complesse: e tuttavia la ricerca della verità è frenata da trame e depistaggi sui quali non si è mai fatta piena luce». A giudizio del magistrato, «è questo quadro, nel quale resistono da decenni ampie zone d’ombra, a far pensare che la mafia non fosse l’unica responsabile della trama criminale ma che abbia svolto il ruolo di “braccio armato” per interessi propri e di altri poteri». Troppi gli interrogativi ancora aperti sulle responsabilità: chi, e per quale finalità? Nel ragionamento di Grasso risuonano le domande che hanno animato le indagini giudiziarie sugli enigmi relativi al biennio di sangue 1992-1993 e sulle complicità «esterne, politico-istituzionali», nelle stragi di mafia. Le stesse domande che si rincorrono da tempo sui delitti di Piersanti Mattarella e Pio La Torre.

Possiamo allora ipotizzare l’esistenza di un inquietante fil rouge, di un legame oscuro che abbraccia e supera gli anni Ottanta, nel segno della regia e delle connivenze di apparati dello Stato interessati ad agevolare i disegni criminosi della Cupola? E siamo in grado di fare luce sulle molteplici zone oscure che accompagnano puntualmente tutte le più clamorose operazioni di Cosa Nostra, rompendo per sempre la rete fitta di silenzi e omertà, di una Ragion di Stato che sembra rendere l’Italia impermeabile alla conoscenza della verità? Il nostro quotidiano lo ha chiesto a Giuseppe De Lutiis, uno dei più autorevoli studiosi di eversione e poteri occulti, autore di una dettagliata Storia dei servizi segreti in Italia dal fascismo alla Seconda Repubblica e, fra gli altri, dei volumi Perché Aldo Moro e Il lato oscuro del potere

Realtà politiche e apparati dello Stato hanno esercitato un ruolo nell’eliminazione del generale Dalla Chiesa così come in quella di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, accompagnando e favorendo l’iniziativa della Cupola?
Condivido in pieno le valutazioni espresse da Grasso riguardo “le responsabilità e azioni occulte di depistaggio e falsificazione ad opera di soggetti distinti da Cosa Nostra”, e su “una verità ancora da accertare sui mandanti tuttora nascosti” del delitto di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Un omicidio di altissima valenza destabilizzante sul piano nazionale, e internazionale, non può essere stato commissionato né da Totò Riina né da Bernardo Provenzano. Ciò pone il problema di eventuali livelli superiori che possono avere protetto Cosa Nostra fin dallo sbarco alleato in Sicilia. Non possiamo dimenticare che quella operazione fu fortemente facilitata da ripetuti incontri del gangster Lucky Luciano, che scontava una condanna a cinquanta anni di reclusione ed ebbe un ruolo di “ambasciatore” di Cosa Nostra statunitense in Sicilia fin dal 1942. Egli fu avvicinato da alti funzionari del “Naval Intelligence Service”, il servizio segreto della Marina nordamericana. La collaborazione fu di reciproca soddisfazione al punto che, a guerra finita, Luciano fu graziato dal governo Usa e trasferito a Napoli dove visse in una splendida villa del Vomero. Nel 1974 il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Luigi Carraro, informò il ministro degli esteri Aldo Moro dell’esistenza di un allegato segreto all’articolo 16 dell’armistizio che garantiva l’impunità a mille appartenenti a Cosa Nostra. Dunque il filo rosso parte addirittura nel 1943, anche se purtroppo l’allegato non è mai stato reso noto. 

È giusto affermare, come ha fatto Nando Dalla Chiesa, che è doveroso ricercare le responsabilità dell’omicidio del padre nella Democrazia cristiana siciliana, collusa e connivente con Cosa Nostra per decenni? O è necessario illuminare ulteriori zone d’ombra?
Mi onoro dell’amicizia di Nando Dalla Chiesa e condivido del tutto le sue osservazioni. Anzi, come vede, io retrodato al 1943 le collusioni internazionali che sono alla base di connivenze tuttora da chiarire. Trovo comunque realistico che il generale Dalla Chiesa abbia in un certo senso “provocato” la reazione della mafia e dei suoi protettori politici e istituzionali. Prima di lui nessuna autorità di alto livello aveva sfidato i poteri collusi in maniera così ostentata. Anche il fatto di circolare per Palermo con un’utilitaria priva di protezione può essere stata considerata un’intollerabile provocazione dalle forze che con la mafia convivevano da decenni. Non possiedo le conoscenze specifiche sulle vicende palermitane che mi consentano di esprimere valutazioni precise sui motivi e gli obiettivi del delitto. Ma appare credibile che un uomo come il generale, forte di un decennio di vittoriosa lotta contro il terrorismo di sinistra, abbia utilizzato la sua professionalità anche nei confronti della mafia e dei suoi protettori. 

Forse le cause profonde della sua uccisione vanno ricercate anche nel mistero del Memoriale completo di Aldo Moro, di cui probabilmente il generale era venuto a conoscenza con la scoperta del covo delle Br in Via Monte Nevoso a Milano nell’ottobre 1978. Forse si voleva eliminare una personalità forte, depositaria dei segreti della pagina più tragica e oscura della storia repubblicana.
Su tale vicenda, e su possibili aspetti oscuri della lotta contro le Brigate Rosse, è necessario distinguere. Da un lato è accertato che all’interno dei vertici dell’Arma dei Carabinieri vi fossero ufficiali legati alla Loggia P2, i quali non vedevano di buon occhio una crescita del potere del generale, dall’altro non possiamo affermare con certezza che vi fosse un legame fra Mario Moretti, capo militare delle Br nei giorni del rapimento e del delitto di Moro, e quegli ufficiali. Possiamo però concordare con Corrado Guerzoni, stretto collaboratore dell’ex Presidente del Consiglio democratico-cristiano, il quale dinnanzi alla Commissione Moro dichiarò: “Moretti ha stabilito con qualcuno una convenienza reciproca per la gestione del sequestro, e ha potuto viaggiare tranquillo per l’Italia senza che nessuno lo fermasse. Nessuno ha avuto interesse a trovare Moro. Io dico che vi è stata una voluta determinazione, all’insegna delle parole d’ordine ‘Facciamo un gioco di squadra, noi fino a qui, voi fino a lì’”. Vi è poi la discutibile affermazione di brigatisti e alcuni magistrati, secondo cui Moro sarebbe stato rinchiuso per 55 giorni a Via Montalcini. Concordo con quanto affermarono il generale Dalla Chiesa e il fratello di Moro, Alfredo, per i quali lo statista fu prigioniero in Via Montalcini al massimo alcune notti. Mi chiedo allora: chi mente sapendo di mentire? 

Le forze esterne a Cosa Nostra che hanno esercitato un ruolo nei delitti e nelle stragi compiute dalla mafia fra il 1980 e il 1993 possono essere identificate con le “menti raffinatissime” di cui parlò Giovanni Falcone all’indomani dell’attentato fallito all’Addaura?
La frase “menti raffinatissime” fa ovviamente riferimento a persone di alto livello intellettuale ma anche professionale. In questo senso mi domando: perché escludere Bruno Contrada? In fondo era il numero tre del Sisde, nel quale all’epoca della mancata strage dell’Addaura convivevano uomini che aderivano a ordini cavallereschi di varia attendibilità e personalità delle istituzioni. Più in generale, a Palermo come in altre grandi città, esistono e operano molti ordini cavallereschi i cui adepti sono spesso nobili rampolli della borghesia più in vista. Non che questo garantisca la raffinatezza di pensiero e uno spessore culturale adeguato, ma certamente assicura un curriculum professionale di buon livello. 

Queste realtà sono ancora vive e cercano di influire sulle vicende politiche attuali, oppure appartengono al passato? Lo stesso Grasso ha utilizzato l’espressione “menti raffinatissime” per indicare gli ispiratori di un tentativo di aggressione e di ricatto contro il Capo dello Stato in merito alle polemiche sulle intercettazioni tra il Quirinale e l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino.
Penso che il riferimento operato oggi dal procuratore nazionale antimafia presenti una valenza ancora maggiore. Auspico però che le sue parole offrano l’impulso necessario affinché le indagini giudiziarie attualmente in corso giungano a fare luce sull’identità dei responsabili di tali operazioni occulte, sui nomi e i volti delle “menti raffinatissime”. 

Le istituzioni italiane sono adeguatamente forti e in grado di tollerare l’impatto della verità sull’intera stagione dei delitti e delle stragi di mafia?
Mi augurerei che vi fosse la capacità di giungere alla rivelazione di tutto ciò che vi è stato dietro ai delitti degli anni Ottanta e alle bombe del 1992-1993. Temo però che ciò non accadrà e che una pulizia assoluta della società siciliana, metafora di quella nazionale, verrà ancora una volta rinviata. Mi accontenterei di un parziale chiarimento, che costituirebbe un indubbio passo avanti e un’auspicabile conclusione della delicata fase oggi in atto. L’illuminazione delle pagine ancora oscure di quella stagione verrà invece rimandata a un futuro non vicinissimo.

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