A guardar i punti di forza dell’Albania, i 72 chilometri di distanza dalla Puglia, il clima favorevole, la diffusione dell’italiano nella popolazione, il sistema fiscale, ma soprattutto il basso costo della manodopera, l’ambasciatore a Tirana Massimo Gaiani ha definito questo spicchio di Balcani «la Cina d’Europa». Ma a sentire i giudizi delle agenzie di rating, chi da Bari arriva al porto di Durazzo o all’aeroporto di Tirana deve fare solo una cosa: girare i tacchi e portarsi gli euro a casa perché, col tasso di debito pubblico ritenuto troppo alto per il livello di sviluppo del Paese, quasi il 60% del prodotto interno lordo nazionale, investire qui sarebbe un rischio.
Sull’altra sponda dell’Adriatico gli imprenditori italiani sono oltre quattrocento e agli analisti di New York badano poco o nulla. Metà parlano barese e salentino e nella maggior parte dei casi hanno fiutato guadagni e opportunità mentre gli albanesi scappavano in Italia dalle macerie della dittatura comunista di Enver Hoxha. Il primo incentivo era ed è il costo del lavoro: secondo i dati 2010 della Banca centrale albanese, un operaio guadagna al mese dai 170 ai 425 euro, un ingegnere dai 253 ai 630 euro, un dirigente da 550 a 1.354 euro.
Tanto che Durazzo e Tirana si è trasferita Teleperformance, la multinazionale francese dei call center che serve, tra gli altri, clienti come Alitalia, Vodafone, Eni, Enel, Sky e Mediaset. Nelle sedi di Taranto e Fiumicino ha mandato in esubero 855 lavoratori e imposto il salario di solidarietà, e assunto qui. In media, dicono i sindacati, gli addetti del settore non superano i 25 anni e portano a casa fino a 470 euro al mese, la metà o quasi della paga italiana. Tramite servizi in outsourcing, qui ci sono anche Telecom e Wind. E non a caso nel 2011, sull’onda del boom delle telecomunicazioni, il governo ha aperto la gara per la banda larga.
A impugnare la valigia sono i figli di quella generazione disperata che l’8 agosto di 22 anni fa sbarcava nel mare di Bari a bordo della Vlora: come nel film di Gianni Amelio del ’94, in Italia hanno trovato Lamerica sognata in tv con Non è la Rai o Ok, il prezzo è giusto!. Ora tornano a casa per ricomporre la famiglia o per sperimentare un “turismo delle radici”, come scrive Francesco Vietti in Hotel Albania. Viaggi, migrazioni, turismo (Carocci editore).
Da Bolzano a Palermo l’Istat ne conta in tutto poco più di 483mila. Tra gli stranieri sono quasi il 10% degli imprenditori dopo i marocchini e poco più del 20% degli universitari dopo i cinesi. I più fortunati studiano o hanno studiato a Bari e Lecce, dopo aver imparato l’italiano in patria fino alle superiori. Gli altri lavorano in aziende edili, ricostruiscono in proprio i muretti a secco nelle campagne della Murgia barese e della Valle d’Itria, o confezionano da terzisti camice e scarpe per i marchi del made in Italy. Da dieci anni ingrossano le cifre del porto di Bari e negli ultimi tre, insieme a quelle dell’aeroporto di Palese, hanno portato la voce Albania in Puglia su una media di circa 820mila spostamenti ogni dodici mesi. Bastano dai 33 a 267 euro, solo andata, ma adesso il ritorno è d’obbligo.
Sembra un’altra regione d’Italia. Nel 2005 Luigi Triggiani, esperto di organizzazione aziendale e marketing internazionale, l’ha spiegato in Albania Lato B. Guida appassionata al business in Albania (Cacucci), invitando i pugliesi a non identificarla sempre come un feudo di corrotti, prostitute, ladri o trafficanti, ma come un approdo strategico che può allargare visione del mondo e fatturati. Triggiani nella capitale guida l’ufficio Unioncamere Puglia attivo dal ’99, ormai uno dei luoghi chiave per gli italiani (ora pure albanesi) in cerca di assistenza tecnica, supporto logistico, consulenza e formazione.
All’interno del suo ufficio, tra il 2005 e il 2006, è nata la prima banca a capitale italiano in Albania, la Veneto Banka (quota mercato pari all’1,07%, l’altra italiana è Intesa SanPaolo Bank col 12,06%), dalla vendita delle quote dell’ex Banca Italiana di Sviluppo (Bis Banca) in parte della Banca Popolare Pugliese, controllata da Veneto Banca. «Bisognava andare di là per capire cosa serviva – spiega Triggiani a Linkiesta – quando sono arrivato nel ’92 il paese era in fase di ripartenza, nella capitale circa 200mila abitanti, c’erano solo le ville al centro e le case popolari in periferia, oggi ci sono quasi 1 milione di persone e la città è stata ricostruita per gran parte da imprese edili italiane». «Direi che è più una piccola Cina per l’Italia, con un potenziale economico enorme e grandi risorse naturali», continua Triggiani, che spiega: «Deve essere intesa come una palestra per l’internazionalizzazione per chi non ha un management altamente qualificato e che magari parla tre lingue come chi va fino in Vietnam. Poi per la posizione strategica e per i costi di manodopera tra i più bassi d’Europa si può imparare in Albania cosa significa avere legami commerciali e culturali con l’estero. Il mercato è ancora competitivo con molte altre parti del mondo e addirittura con la possibilità di pianificazione, controllo della qualità e formazione in italiano o per le aziende pugliesi addirittura in dialetto di Bari».
L’Italia è il primo partner commerciale con un volume di scambi nel 2011 pari a 1,95 miliardi di dollari (il 28% in più rispetto al 2010), tra combustibili, minerali ed energia, ma soprattutto pelli, tomaie, collanti, filati, puntali e fodere esportati (sfruttando l’esenzione Iva prevista) come prodotti finiti o semilavorati per calzature. È poi il primo donatore nella cooperazione allo sviluppo con circa 300 milioni di euro stanziati dal 2002 per oltre 70 progetti, tra trasporti, edilizia scolastica, servizi sociosanitari, tecnologie per agricoltura e pesca, e gestione aree protette. E, non da ultimo, è il secondo investitore estero dopo la Grecia con 401 milioni di euro fino al 2010 (Banca d’Albania), gran parte nel manifatturiero e agroindustriale.
Contando sull’appoggio di Roma, dal 2009 l’Albania sogna di entrare nell’Unione europea. A maggio scorso Sali Berisha ha incassato dal premier Mario Monti il rinnovo del sostegno italiano perché entro dicembre 2012 ottenga lo status di candidato all’adesione. Bruxelles però, anche se ha liberalizzato i visti due anni fa, chiede di rafforzare democrazia e stato di diritto, mettendo mani a legge elettorale, lotta alla criminalità e corruzione, tutela dei diritti umani e di proprietà. E alla pubblica amministrazione: i nodi sono la concessione di permessi edili, la lentezza burocratica nelle pratiche doganali legate soprattutto al rimborso dell’Iva a chi esporta (le aziende versano l’imposta sugli acquisti interni ed esportano in esenzione accumulando crediti) e il rifornimento dell’energia elettrica.
Tra le aziende pugliesi che tentano di risolverli c’è il gruppo Marseglia di Monopoli: nella regione di Lezhe ha previsto circa 1 miliardo di euro di investimenti per la costruzione di due parchi eolici e una centrale a biomasse liquide, rispettivamente da 234 e 135 megawatt, ma soprattutto per l’interconnessione delle reti di alta tensione tra Italia e Albania tramite due cavidotti sottomarini da 500 chilovolt (con stazioni di conversione) che legheranno l’Adriatico dalla costa di Manfredonia a quella di Shengjin.
Interconnessione Italia – Albania con cavidotti sottomarini ((Marseglia Group)
L’opera è dal 2008 in un accordo intergovernativo sulle “green production”, ma si è inceppata e non per i ritardi albanesi. «È l’Italia che si è fermata – spiega a Linkiesta Giuseppe Lagrotta, direttore amministrativo dell’azienda, dal ‘74 leader mondiale nel settore degli oli vegetali e con un fatturato di 357 milioni di euro nel 2010 – l’accordo non è ancora operativo perché aspettiamo ancora un decreto ministeriale che chiarisca nel dettaglio il prezzo dell’energia, in questo caso quella che verrà prodotta in Albania e poi importata in Italia. L’elettrodotto rientra nella logica delle reti, una parte dell’energia prodotta resta sul territorio e l’altra viene esportata per il fabbisogno estero. L’incertezza politica italiana ha tardato tutto, dal nucleare alle rinnovabili, e il cambio di governo e la crisi ha cambiato le priorità. Perché l’Albania? Hanno bisogno di energia, un po’ come l’Italia negli anni ’60».
Dal 2007 al 2011 infatti Tirana dato l’ok a 327 idro-centrali (30 ancora in corso) per 1,7 miliardi di euro di investimenti. Con la domanda non ancora soddisfatta, le tariffe medie per megawattora sono aumentate dai 42 euro del 2010 ai 66 del 2012 (contro i circa 150 euro pagati in Italia), e la crisi energetica del 2011 ha costretto a importarla in grandi quantità. Il potenziale del Paese, con 2.500 megawatt solo nel settore idroelettrico, è secondo solo Norvegia e Svizzera. «Conviene investire per i costi di produzione – aggiunge Lagrotta – ma soprattutto per la grande disponibilità di risorse naturali. Da noi è diventato quasi impossibile creare sviluppo e gli investimenti migliori come nell’eolico sono stati già fatti. Ci sono grandi opportunità di espansione su piccoli progetti di impianti idroelettrici, ma serve cautela anche nella sostenibilità finanziaria che mai come ora dipende dai propri mezzi».
Deve andarci piano anche chi, come negli anni del boom, vede l’Albania come un pozzo senza fondo. «Allora le aziende pugliesi – ricorda Triggiani – venivano visitate dagli albanesi che arrivavano direttamente con i camion e i soldi in contanti anche perché gli italiani non volevano problemi. Vendevano assecondando gli albanesi che chiedevano fatturazioni più basse per i dazi doganali, ma proprio mentre si sviluppavano grossi volumi di vendita s’ignorava completamente dove andassero a finire i prodotti, così i più svegli che parlavano anche cinque lingue sono arrivati a vendere in Kosovo, Macedonia, Grecia e Montenegro, specialmente alle etnie albanesi, e noi, ad esempio i produttori dell’infisso, ignari di qualsiasi posizionamento di prezzo, abbiamo fatto sì che decidessero di produrre da soli il prodotto italiano, aprendo proprie fabbriche e facendo saltare tutta la concentrazione da un giorno all’altro».
Altro che avash avash, piano piano, come dicono spesso. È la stessa marcia con cui si cerca di recuperare i ritardi di quasi mezzo secolo di comunismo costruendo o rinnovando porti, aeroporti, ferrovie e soprattutto strade. A lungo termine serviranno per l’atteso Corridoio paneuropeo 8, la cerniera intermodale dai porti di Bari e Brindisi a quelli di Burgas e Varna sul Mar Nero. Gran parte dei lavori passa dalla Fiera del Levante di Bari, che dal 2000 va in scena anche a Tirana (da campionaria a specializzata su energie rinnovabili, edilizia sostenibile e tecnologie per l’ambiente) dovendo, insieme ad altri, anche facilitare i progetti italiani per la ricostruzione e lo sviluppo secondo la legge 84 del 2001 sui Balcani.
Il corridoio 8, da Bari a Varna
A breve termine apriranno le vie per il Vecchio Continente. Tra queste c’è la Scutari-Hani i Hotit, snodo per il Montenegro. L’opera costa 30 milioni di euro e verrà realizzata da due aziende italiane, la Claudio Salini Spa di Roma e il Gruppo Matarrese di Bari (quota del 45%). «Il progetto è strategico e rientra nell’ambito di quelli previsti dalla cooperazione italo-albanese», dichiara a Linkiesta Salvatore Matarrese, direttore tecnico dell’azienda di famiglia e presidente dell’Ance Puglia, che spiega: «È un’opera complessa perché abbiamo avuto un lungo stop dal dicembre 2010 per l’alluvione di Scutari (la quinta degli ultimi anni ed è stato dichiarato lo stato di calamità naturale, ndr), ma stiamo proseguendo e concluderemo i lavori nei prossimi anni».
Ai costruttori baresi, terzi nel Mezzogiorno e con recenti attività anche in Marocco, la commessa nel 2010 ha aumentato il fatturato dell’11,9 per cento. «In Albania – aggiunge Matarrese – siamo inseriti da tempo in una rete di imprese locali, stanno crescendo rapidamente e stanno sfruttando le immense risorse. Hanno però limiti burocratici, ma sono sempre meno rispetto all’Italia perché c’è molta attenzione a realizzare nel più breve tempo possibile opere importanti e strategiche. Anche nel nostro settore la manodopera costa fino al 45% in meno rispetto all’Italia e a queste condizioni diventa quasi impensabile portare lì gli operai italiani, e gli albanesi al contrario di quello che si può pensare, non sono meno qualificati dei nostri».
Per l’International Trade Center l’Albania vanta la più alta crescita economica del sud-est europeo, trainata da esportazioni. Nel 2011, tessili, calzature, combustibili, minerali e materiali edili hanno visto schizzare del 23% l’export dei prodotti “made in Albania”. In piena crisi hanno mantenuto positivi i tassi di crescita del Pil (+3,3% nel 2009, +3,5% nel 2010, +3% nel 2011, secondo la Banca Mondiale), così gli investimenti diretti esteri (dai 324 milioni di dollari del 2006 ai 1.031 del 2011, World Investment Report 2012, Uncad), con più di metà su trasporti, comunicazione, banche e servizi.
Come mai? Lo dice la Banca Mondiale nel rapporto “Doing Business 2012” sui progressi di 183 economie mondiali a vantaggio di affari e imprese: a Tirana sono sempre più tutelati gli investimenti (16esimo posto), con maggiori possibilità di ottenere un prestito bancario (24esimo posto), più di quanto accade in Italia (rispettivamente al 65esimo e 98esimo posto per giudizio). Ma la crisi è dietro l’angolo: nell’ultimo anno ha ridotto i quattrini esteri (-2%) anche per via della recessione ad Atene e a Roma, contratto le rimesse degli albanesi all’estero (-27,3% rispetto al picco del 2007 pari a 952 milioni di euro), e spinto il tasso di disoccupazione al 13,32% a marzo scorso dopo il crollo degli ultimi anni (dal 2002 al 2008 giù dal 17% al 12,5%).
Di quale Albania parlare? Di certo l’80% dell’economia non è più statale, sia per la vendita degli assets – la telefonica Albtelecom è andata ai turchi di Calik Holding, l’energetica Ossh ai cechi di Cez, la petrolifera Armo al consorzio svizzero-americano Anika Enterprises, Refinery Associates of Texas & Mercuria Energy Group – che grazia alla riforma fiscale del 2008. Se prima le imprese venivano tassate del 20% e le persone fisiche dall’1% al 20%, oggi per tutti i redditi vige una flat tax del 10 per cento. Poi, anche per effetto dell’Accordo di stabilizzazione e associazione (in vigore dall’aprile 2009) e dell’Interim Agreement siglati con l’Europa, sull’83% dei prodotti industriali importati dal mercato europeo non si pagano tasse doganali e chi investe nelle zone montuose non paga le tasse per otto anni. Le misure antievasione, dal divieto di transazioni cash sopra 2.158 euro a quello dell’uso del contante per le imprese oltre il 10% del fatturato, sono tuttavia giudicate ancora blande.
La Cofra di Barletta, leader nella fabbricazione di scarpe di sicurezza e da lavoro, è atterrata qui negli anni ‘90 per abbattere i costi di manodopera e allargare le vendite (anche tramite il fornitore Albaco Shoes). «Abbiamo deciso di delocalizzare nel 1992 dopo la crisi economica provocata dalla svalutazione del dollaro – dichiara a Linkiesta l’amministratore delegato Giuseppe Cortellino – per competere con la Cina sembrò la soluzione, ma non lo era completamente. È stata un’esperienza notevole che ha favorito l’internazionalizzazione, ma è stata molto dura. La mentalità industriale lì non esiste, così la burocrazia, ma nel tempo tutto è migliorato molto e oggi non esiste un made in Albania concorrente». Cofra è tra le poche che per delocalizzare non si è stravolta e alla crisi ha risposto con investimenti in ricerca e innovazione, rafforzando il quartier generale in Italia e la posizione strategica nel comparto. Fondata dal padre Ruggiero nel ‘38, oggi ha 350 dipendenti, sforna 15mila paia al giorno e fattura 80 milioni di euro.
Meglio cioè della crisi settoriale del 2003-2004 che nel Salento ha messo in ginocchio i due (ormai ex) colossi come Filanto e Adelchi, che sull’altro estremo del canale d’Otranto sono stati i primi italiani a macinare guadagni, rispettivamente dal ’93 e dal ’96. Tra congiuntura internazionale, concorrenza dei paesi in via di sviluppo, ritardo nelle strategie di riposizionamento di mercato e stretta creditizia, tuttavia, non sono riuscite a rilanciarsi: hanno mandato in cassa integrazione circa 1.100 operai, e sono ancora in attesa che si sblocchi l’accordo di programma da 40 milioni di euro siglato nel 2008 tra Stato e Regione Puglia. Se Adelchi – che oltre ad essere in Bangladesh e Etiopia, è in Albania tramite joint venture con le ditte Donianna, Rozimpeks e Albanian Shoes Corporation – nel 2002 contava su più di 2mila operai, oggi, tra Tricase e Specchia, se ne ritrova poco meno di un centinaio, per lo più designer e produttori dei campioni. E Filanto, che oltre ad essere in Ucraina, Argentina e India, ha puntato tutto su Tirana e Durazzo, se arrivava a stipendiarne fino a 3.500, ora ne ha meno di 200 e tra Casarano e Patù la produzione è minima.
Fare scarpe in Albania non è difficile. «Il vantaggio – chiarisce Triggiani – è individuare un fornitore albanese da cui comprare prodotti o parte di lavorazione. Non bisogna demonizzarlo, significa rendere flessibile la produzione come abbiamo fatto noi trent’anni fa con la lavorazione a façon. La differenza è l’incidenza del costo di lavorazione della tomaia dove la manodopera incide di più. Viene pagata circa 200 euro lordi al mese, in Italia fino a 2.500 euro». «Il problema», dice ancora Triggiani, «è che se le aziende non vanno in Albania come magari fanno i tedeschi con tute da lavoro per l’Audi, oggi non vanno nemmeno in Cina, ma in Bangladesh, Laos e Cambogia. Il made in Albania? Serve per i gruppi solidali d’acquisto, l’ha inventato una signora tempo fa ed erano scarpe, ma non evoca l’eccellenza produttiva come il made in Italy».
La signora albanese continua a crederci, come coloro che si mettono in viaggio per portarsi a casa il Vidatox, l’anticancro ricavato dal veleno dello scorpione. L’Albania è anche questo, ma le sorelle del rating non lo sanno.