CineteatroraAlla festa del libro di Pordenone protagonista è stata libertà

Alla festa del libro di Pordenone protagonista è stata libertà

Si è rinnovata a Pordenone l’annuale festa del libro con l’imprinting di idee e percorsi tematici variegati. Un’altra smentita a quel rifiuto duro a morire che fa della cultura l’alieno improduttivo e il buco nero dei mestieri. I numeri di Pordenonelegge 2011 raccontano a proposito l’offerta di oltre 250 incontri e più di 300 ospiti nell’arco di cinque giornate, come sempre promosse dalla Camera di Commercio. Un successo di partecipazioni riconfermato durante la tredicesima edizione 2012 che, nello scambio dalla letteratura al dibattito filosofico, da autobus itineranti affidati a scrittori per ridisegnare le geografie friulane con storie d’altri luoghi, fino a reading musicali e teatrali, non ha visto affluire una massa informe e acritica, ma un’adesione premiata, pur con le inevitabili defezioni dell’ultimo minuto di qualche nome atteso.

La soddisfazione di Gian Mario Villalta, direttore artistico, e dei curatori Alberto Garlini e Valentina Gasparet scorre sul filo di un tam tam mediatico che a Pordenone ha accolto anche Valeria Golino per discutere del suo primo lungometraggio da regista tratto da un romanzo di Mauro Covacich. Sono sfilate accanto le autorialità italiane più acclarate tra cui Claudio Magris e Corrado Augias, con argomentazioni unificanti sulla storia o la ricerca del vero tema letterario dietro una selva fertile di appuntamenti didattici e maratone di poesia. Se da un lato, proprio la girandola di nomi ha abbracciato i vertici di Ian Mc Ewan e Jonathan Coe per il versante britannico, ma anche visioni dei sentimenti in una mappa caratterizzante il festival e quest’anno rivolta a otto giallisti di chiara fama nazionale, dall’altro, si sono avvicendate lezioni d’esperti sui temi del futuro, della psiche e sulla centralità di un festival in dialogo di generi.

Quel che si è visto, tra code in anticipo di due o tre ore e battesimi di star, è certamente un’opportunità larga e gratuita. Un itinerario dove soffermarsi sulla libertà è stata una conseguenza pressoché naturale e tesa alla giustizia, al potere, alle mura pericolanti delle nazioni. Sullo stesso terreno si è mossa la riflessione inedita del filosofo e saggista bulgaro Tzvetan Todorov, autore del recente I nemici intimi della democrazia edito da Garzanti. Tra i fondamenti di un discorso che attiene al futuro della giustizia internazionale e al conforto di un diritto preesistente al ruolo correttivo delle leggi l’auspicio è per una più solida e multipolare attuazione pratica, perché si possa dirimere una volta per tutte il conflitto tra potenze ingiuste e giustizie impotenti.

Gli esempi citati da Todorov a riguardo sono la prova di ostacoli evidenti alla pratica di un diritto tra gli stati e non sopra di essi, e riferiscono dell’azione del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja e della Corte Penale Internazionale, anch’essa con sede all’Aja. Due quadri affini in termini di strumentalizzazione priva di un reale supervisore, di un gendarme universale che tuteli dagli estremi e intervenga a dosare la medicina buona dell’Europa.

Nell’arco di poco più di un’ora, con gli occhi puntati anche di chi è rimasto fuori in piedi ad assistere, Todorov ha esaminato il caso specifico della guerra in Kosovo, contornata dalle dichiarazioni della Nato su un’improbabile “catastrofe umanitaria”. Affermazioni pesanti che il consuntivo ufficiale ha poi smentito nei termini delle circa 4000 vittime identificate, contro i 100-115.000 kosovari dispersi e 1.500.000 albanesi cacciati dalle proprie case durante il piano “ferro di cavallo” per il reinsediamento di serbi di sangue puro. Cifre discutibili in ragione del senso storico di genocidio, abusi messi in atto da un’operazione bellica di cui non si nega la gravità sanguinaria, ma che è frutto di un’articolazione del diritto tra stati belligeranti per il tramite del Tribunale Penale Internazionale.

Il secondo quadro di giustizia selettiva proveniente dalla Corte Penale Internazionale, costituitasi nel 2002, contiene in sé un altro germe d’errore: un regolamento non ratificato dalle principali superpotenze di Usa, Cina e Russia. Il che spiega perché fino ad oggi siano stati giudicati dalla Corte soltanto sette casi africani privi di protettorati influenti. È ancora una volta la manipolazione di una libertà di potere che ha scansato tra gli altri i massacri compiuti in Cecenia e Tibet, dunque rispettivamente le responsabilità di Russia e Cina.

La sola alternativa a una giustizia imperfetta e a una democrazia minata, secondo Todorov, da un messianesimo laico propugnatore del progresso a qualsiasi costo, dall’ultraliberismo e da un populismo sempre più demagogico, è forse un procedimento empirico dove le azioni legali transfrontaliere non siano negoziate con le armi. Il rischio è che reati minori restino impuniti, che l’esistenza perseveri nell’imperfezione del giardino di Montaigne. Ma l’obiettivo, anche in concomitanza con Primavere arabe devastate dalla spaccatura tra chi è proteso al futuro e chi è ottusamente ancorato al passato, può essere solo una via mediana da imboccare senza vergogna e, soprattutto, senza protettorati. Si invoca cioè un piano di forze esecutive che restituiscano i fatti a una giustizia non tradita e, come ha ricordato Marcello Fois trattando di sentimenti, ci consentano persino di tornare a respirare quelle invidie del tutto umane scaturite dall’uguaglianza e concesse dalla democrazia. 

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