«Non ti preoccupare, qui è tutto sotto controllo. È una manifestazione “pacifica”, tutto sommato». Efthimia Efthimiou, reporter di Capital Greece, si dice tranquilla. Ma a guardare le immagini trasmesse da Cnbc e Skai (quella greca si chiama così) non sembra così. Bombe molotov, lacrimogeni, scontri di piazza fra polizia e anarchici, gente in fuga. E sullo sfondo, il Parlamento. In Grecia torna l’incubo delle proteste. Come l’anno scorso. Come due anni fa. Come in Spagna.
La crisi dell’eurozona non ha solo risvolti economici o finanziari. La recessione in cui è entrata la Grecia non solo sta distruggendo la ricchezza dei singoli, stretti in un abbraccio mortale fra corruzione, tagli, aumento delle imposte e disoccupazione. E gli scontri di oggi, quelli che sono stati definiti quasi «normali», fanno più paura che in passato. Se due anni fa, ma anche solo pochi mesi fa, il sentimento di fronte a questa manifestazioni di rabbia sociale era di stupore, ora qualcosa è cambiato. Lo straordinario diventa ordinario, un po’ come le varie azioni della Banca centrale europea (Bce).
Il debito pubblico ellenico è stato oggetto di una prima ristrutturazione. L’operazione, circoscritta alla parte detenuta dai creditori privati, circa 206 miliardi di euro su 365 complessivi, è stata ultimata nello scorso marzo. Ma già si sapeva che non era abbastanza. Servirà uno sforzo dei creditori pubblici, come si vocifera da mesi. Un esempio è quello della Bce, che ha in pancia quasi 50 miliardi di euro di bond ellenici, comprati sul mercato obbligazionario secondario attraverso il Securities markets programme (Smp) negli ultimi due anni. Ma occorreranno anche altre sforbiciate alla spesa pubblica. Con essi, arriveranno anche altre tensioni.
E poi c’è la polveriera spagnola della Catalunya. Se fino a pochi anni fa era la più prolifica fonte di ricchezza della penisola, ora è un pozzo senza fondo. Se nel 2008 il debito della Catalunya era di 20,825 miliardi di euro, stando ai dati del Banco de España relativi al secondo trimestre del 2012 si è saliti fino a 43,954 miliardi. E ora, con le crescenti tensioni sulla Spagna, la questione indipendentista rischia di trascinare tutto il Paese verso un bailout sovrano, da una parte, e nuovi disordini sociali, dall’altro. Il presidente della Catalunya, Artur Mas i Gavarró, ha invocato il voto per il 25 novembre. Il sogno della secessione è accarezzato da molti, per via di un’austerity che fa male, di un governo centrale ritenuto colpevole di aver aggravato la crisi catalana e di non fare abbastanza per risollevare l’area. Le critiche sono arrivate da più parti, ma il Paese resta diviso. Chi vuole andare via, chi vuole restare. E se a ciò si associano le minacce, nemmeno troppo velate, dell’Asociación de Militares Españoles (AME) sulle possibili rappresaglie in caso di frattura dell’integrità territoriale della Spagna, il quadro è ben definito. Ma non solo. Come ha ricordato Angelo Miotto, «l’articolo 8 della Costituzione pone l’esercito come garante della stessa». Nessuno sa come potrà evolvere la situazione. Eppure, c’è una certezza: i debiti continuano ad aumentare. Via via, crescerà la sofferenza degli spagnoli. Specie perché domani il governo di Mariano Rajoy svelerà le nuove misure di contenimento della spesa pubblica per evitare l’estensione del piano di salvataggio varato in luglio a solo beneficio delle banche.
E poi c’è la Francia. Stando agli ultimi dati sulla disoccupazione diramati dal ministro del Lavoro, Michel Sapin, nemmeno Parigi è immune alla crisi. «I disoccupati sono tre milioni, il numero più grande dal 1999», ha detto Sapin. «Sono cifre peggiori delle aspettative ed è difficile fare previsioni a lungo termine», ha aggiunto. Ma c’è di più. Due mesi fa, quindi dopo l’elezione di François Hollande all’Eliseo, la banca transalpina Société Générale aveva rimarcato che il prossimo problema per la Francia, oltre al contagio della crisi dell’eurozona, sarebbe stata la disoccupazione. «Il mercato del lavoro francese è instabile e senza espansioni la vulnerabilità è destinata ad aumentare». Con essa, i disordini sociali.
Anche la Germania sa che, più dura la crisi, più dovrà fare i conti con un mercato del lavoro in difficoltà. Secondo l’analisi di Deutsche Bank, il principale istituto di credito tedesco, «nel 2012 la disoccupazione è aumentata oltre le stime e solo a partire dalla seconda metà del 2013 tornerà a scendere». Il Paese più virtuoso dell’area euro, proprio come la Francia, rischia grosso.
E l’Italia? La crisi ha morso, morde e morderà ancora. Eppure, a esclusione degli episodi dello scorso 15 ottobre, quando Roma venne messa a ferro e fuoco da un manipolo di anarchici organizzati, ci sono stati solo episodi isolati. Non che la pesantezza della recessione, delle misure di austerity e del deleveraging non siano evidenti. Come sottolinea Ubs in un’analisi, è un problema di saturazione. «In Spagna e Grecia la popolazione, oltre a essere più attiva, è saturata dalle misure di consolidamento fiscale, che in Italia sono state meno dure del previsto», rimarca la banca elvetica. Ma fino a che punto potrà durare la situazione? Nessuno fa previsioni. Tuttavia, considerata la rabbia latente che si percepisce nel nostro Paese da un po’ di mesi a questa parte, considerato l’allarme per un autunno che sarà caldo, la paura è che questo equilibrio possa durare poco. In più di un’occasione diversi esponenti del governo Monti, come il ministro del Lavoro Elsa Fornero, hanno lasciato intendere che il peggio deve ancora arrivare. Sia dal punto di vista economico sia da quello sociale. Ipotesi confermate anche dai principali sindacati italiani, come la Cgil di Susanna Camusso.
La speranza è che lo schema già visto ad Atene e Madrid non si ripeta in Italia. E in questo gioco al massacro, la chiave di volta torna di nuovo nelle mani dei politici. Si arriverà a un certo punto in cui l’eurozona dovrà scegliere se crescere, andando verso una maggiore integrazione, o polverizzarsi. Per farlo si dovrà cedere una parte della sovranità nazionale, con l’obiettivo finale di avere una struttura federale comunitaria. La via più razionale è definita, dato che nessuno conosce i possibili effetti di una disintegrazione dell’area euro. L’incognita sono gli interessi politici personali, possibile detonatore dell’odio sociale. Riusciranno a essere tenuti a bada? Un enigma che ancora non trova risposta.