In Germania scatta l’allarme povertà per gli anziani. Colpa di pensioni sempre più basse, complice le riforme delle pensioni ma anche i salari in discesa, un’altra tessera nel mosaico del “modello tedesco”. Se già uno studio Onu di alcuni mesi fa ha rivelato come Berlino abbia rilanciato l’economia negli ultimi anni a spese dei vicini, soprattutto abbassando i salari a vantaggio dell’export e a svantaggio dei consumi interni, ora è lo stesso ministro del Lavoro, Ursula Von der Leyen, della Cdu come il cancelliere Angela Merkel, a lanciare l’allarme pensioni. «In gioco – scrive in una missiva inviata ai giovani del gruppo Cdu al Bundestag, rivelata dal settimanale Bild am Sonntag – è né più né meno la legittimità del nostro sistema pensionistico per le giovani generazioni».
Secondo i calcoli del suo ministero, chi ha guadagnato nella sua vita meno di 3.000 euro lordi al mese rischia la povertà, e questo a fronte di una lunghissima vita lavorativa. Stando ai dati diffusi da Von der Layen il quadro è desolante: a partire dal 2030 chi avrà lavorato per ben 35 anni con uno stipendio medio di 2.500 euro lordi, si vedrà riconosciuta una pensione di appena 688 euro al mese– esattamente alla soglia del minimo legale di sussistenza. Chi è arrivato a 2.900 euro lordi, comunque si fermerà a 798 euro. Peggio ancora per chi, come ormai sempre più accade, lavora nei servizi (settore in pieno boom per il quale non esiste un salario minimo come invece in altri comparti), con stipendi anche di 7-800 euro al mese: chi, per esempio, ha guadagnato in media 1.900 euro lordi, nel 2030, e dopo 35 anni di lavoro, si ritroverà con una pensione di 523 euro. Se sarà riuscito ad arrivare a 40 anni di contributi, non supererà comunque i 597,71 euro, comunque al di sotto del minimo di sussistenza. Colpiti da questo drastico crollo delle pensioni saranno milioni di persone, basti dire che secondo l’ufficio statistico federale nel 2010 più di un terzo dei lavoratori in Germania (oltre 10 milioni) avevano stipendi inferiori ai 2.500 euro lordi. I tedeschi, non a caso, sono spaventati, secondo un recente sondaggio pubblicato dalla Bild il 60% ha paura della povertà in vecchiaia, solo il 39% si mostra tranquillo.
Un quadro frutto, oltre che della diffusione di lavori pagati male o malissimo e della cosiddetta “moderazione salariale” (stipendi fermi da oltre 10 anni), anche e soprattutto delle riforme pensionistiche attuate da vari governi a partire dagli anni Ottanta, che hanno portato all’abbassamento progressivo dell’importo della pensione (al netto di sgravi fiscali ed eventuali sussidi aggiuntivi) da circa il 65% dello stipendio medio degli anni Ottanta al 51% attuale fino al 43% nel 2030. Questo, oltretutto, a fronte di 45 anni di lavoro, cifra ormai raramente raggiunta. La ragione delle riforme è chiara: per via dello sviluppo demografico tedesco, se nel 1970 per ogni pensionato c’erano 4,3 lavoratori a versare contributi, nel 2010 siamo scesi a 3 e, se non ci sarà un’inversione di tendenza, ne 2030 ogni pensionato sarà “sulle spalle” di solo due lavoratori.
Certo, per chi scende sotto i limite legale di sussistenza lo Stato potrà intervenire con sussidi (attualmente 374 euro al mese), come già fa al momento per 400.000 pensionati. I numeri però – avvertono il ministero del Lavoro e vari istituti di ricerca – sono destinati a esplodere: secondo un documento interno del ministero rivelato dal quotidiano Abendblatt, nel 2025 la cifra dei pensionati sotto il minimo legale di sussistenza sarà più che raddoppiata (934.000) per arrivare addirittura a 1,35 milioni nel 2030. Costi giganteschi per lo Stato, non a caso vari economisti vedono profilarsi per la Germania una bomba a orologeria sul debito pubblico.
Certo, alcuni tecnici e politici hanno accusato la Van der Layen di “terrorismo psicologico” e di dati incompleti (in moltissimi casi esistono in effetti forme di previdenza integrativa a livello aziendale più varie forme di sgravi fiscali), il problema però resta tutto. «E’ chiaro da tempo – ha dichiarato recentemente Klaus Zimmermann, presidente del Diw (Istituto tedesco per la ricerca economica, uno dei grandi think-tank che realizzano rapporti per il governo federale) – che si potranno evitare riduzioni delle pensioni o drastici aumenti dei contributi solo se l’età pensionabile sarà elevata a 70 anni entro il 2030». L’età pensionabile è stata già elevata a 67 anni, ma il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble ipotizza di aumentarla ancora, anche se per ora la cancelliera Angela Merkel non ci sente. «Dico un chiaro no – ha affermato giorni fa parlando al Dgb (la Federazione dei sindacati tedeschi) – a qualsiasi discussione che si occupi di una vita lavorativa al di là dei 67 anni. Con noi non ci sarà». Non stupisce, visto che siamo ormai in incipiente campagna elettorale in vista delle elezioni dell’autunno 2013.
Von der Layen preme per una integrazione per le pensioni più basse, a fronte di 40 anni di contributi al sistema sanitario nazionale e 30 in quello pensionistico. Secondo il modello del ministro, si riporterebbero le pensioni più basse a 850 euro – poco, ma almeno dignitoso. Eppure la Von der Layen si è trovata di fronte a un fuoco di sbarramento. Non solo di vari politici e tecnici – che parlano di “riformicchia inutile” – ma anche dei sindacati che chiedono invece semplicemente pensioni più alte per tutti, un sogno purtroppo non solo irrealizzabile, ma anche pericoloso. Soprattutto, però, una situazione che spinge a interrogarsi sempre più sul modello tedesco di rilancio economico. L’effetto pensioni da fame non farà che aumentare un fenomeno in cui, stando all’Ocse, la Germania primeggia: il crescente divario fra ricchi e poveri: il 10% più ricco nel 2008 guadagnava in media 8 volte il 10% più povero, contro un rapporto 6 a 1 negli anni Novanta. Titolo del rapporto Ocse (2011) sulla Germania: Divided we stand, why inegality keeps rising. Quasi un monito.