«Dichiarare la necessità di un sostegno alla domanda aggregata tramite la spesa pubblica è un principio che un politico deve tradurre in scelte trasparenti e coraggiose», spiega a Linkiesta Stefano Lucarelli, professore di Economia monetaria internazionale all’Università di Bergamo, che sottolinea: «Il Pd ha avuto la possibilità di esprimere in Parlamento l’opportunità di organizzare la così detta spending review secondo una prospettiva keynesiana, facendone un piano economico volto a riorganizzare il bilancio dello Stato per spostare risorse da certi settori ad altri, in grado così di sostenere la domanda effettiva. La spending review invece si è tradotta in tagli privi di una logica». Sul dibattito tra neoliberisti e keynesiani lanciato da Guido Roberto Vitale (uno dei circa 80 soci de Linkiesta), Lucarelli non ha dubbi: «Inutile focalizzarsi su questa distinzione», tuttavia: «Qualcosa all’interno della scienza economica dominante sembra muoversi, e porta gli studiosi a non credere più che il laissez faire possa essere sempre la soluzione ottimale».
Prima Monti, poi la Fornero e Passera, si sono detti ottimisti sull’uscita prossima dalla crisi. Valori economici quali disoccupazione e produzione industriale paiono smentirli. A che punto siamo?
Gli ultimi dati Istat (giugno 2012) indicano che il numero dei disoccupati (2.792.000) è cresciuto del 2,7% rispetto a maggio e registrano una crescita su base annua del 37,5% (761 mila unità). Gli indici Istat della produzione industriale corretti per gli effetti di calendario registrano, a giugno 2012, variazioni tendenziali negative in tutti i comparti. Giochiamo pure a fare l’avvocato del diavolo e ammettiamo che, nonostante il crollo innegabile della produzione industriale, gli investimenti privati in Italia potrebbero aumentare se l’incremento della disoccupazione si traducesse in un contenimento dei costi del lavoro che contribuissero a sostenere le esportazioni. Gli ultimi dati europei sul commercio estero rilevano un saldo commerciale positivo pari a 2,5 miliardi, con avanzi sia per i paesi extra Ue (+1,5 miliardi) sia per quelli Ue (+1,0 miliardi). Questo però dipende soprattutto dal crollo delle importazioni (-5,8%), con diminuzioni particolarmente rilevanti (in giugno rispetto al mese precedente) per i beni strumentali (-9,5%) e i prodotti intermedi (-5,1%).
E in Italia?
Nei primi sei mesi dell’anno si è registrata una crescita tendenziale delle esportazioni (+4,2%), questo è l’unico dato che potrebbe giustificare aspettative positive. Eppure in giugno si è assistito a una contrazione dell’export (-1,4%) con una diminuzione molto rilevante dei beni strumentali (-9,5%).
Non si può pensare che la tenuta italiana sia dovuta anche alla tenuta istituzionale dell’area euro?
L’acuirsi della recessione in cui si trova l’Italia è dipesa in questi mesi dall’impossibilità da parte della Bce di intervenire sui mercati primari dei titoli di Stato per bloccare le manovre speculative. Mario Draghi ha dichiarato che la Bce farà di tutto per preservare l’euro, ma questa dichiarazione non si è tradotta in niente di realmente efficace. Occorre cominciare a fare i conti con un’amara verità: si è perso tempo e questo si traduce in un incremento dei costi per la tenuta dell’eurozona. L’unione monetaria è oggi fragilissima. Invece di consentire alla Bce di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza nell’immediato – e di lavorare per costruire nel futuro prossimo un’Unione Europea dei Pagamenti sul modello della Clearing Union (su questo punto rinvio al III capitolo di Come salvare il mercato dal capitalismo di Massimo Amato e Luca Fantacci) – è stato il sistema delle banche nazionali, aiutato dalla possibilità di prendere a prestito liquidità dalla Bce all’1% d’interesse, ad acquistare in massa i titoli degli stati in difficoltà, chiudendo, dall’altra parte, i rubinetti del credito alle imprese. Si è perso altro tempo in discussioni infinite sul Fondo europeo di stabilità finanziaria e sugli eurobond. Non vedo dunque ragioni per essere ottimisti sulla tenuta dell’area dell’Euro. Anzi, comincio a vedere ragioni per pensare a un piano di exit strategy. La situazione più nefasta che potrebbe accadere oggi in Italia è un’impreparazione ad un possibile ritorno alla moneta nazionale.
Susanna Camusso, ripresa dall’Unità, ha chiesto «più stato nell’economia». La vulgata lectio tende ad associare questa idea alle idee keynesiane. Cosa ne pensa?
La teoria esposta da Keynes nella General Theory, si può riassumere così: «data la psicologia della gente, il livello della produzione e dell’occupazione complessive dipende dall’ammontare dell’investimento». La produzione totale dipende dalla propensione al tesoreggiamento, da come la politica monetaria influenza la quantità di moneta, dallo stato di fiducia relativo al rendimento futuro dei beni capitali, dalla propensione alla spesa, e dai fattori sociali che influenzano il livello del salario monetario. Questi fattori determinano l’investimento, ma sono influenzati dalle nostre previsioni sul futuro. Da questo ragionamento deriva la necessità di far intervenire lo Stato nell’economia. Spesso si ricorda la seguente affermazione tratta dalla General Theory (capitolo 16): «Lo ‘scavar buche nel terreno’ mediante risorse tratte dal risparmio accrescerà non soltanto l’occupazione ma anche il reddito reale nazionale, di beni e servizi utili.». Si dimentica quanto Keynes scrive subito dopo: «Ma non è ragionevole che una collettività sensata accetti di dover dipendere da simili espedienti, fortuiti e spesso distruttivi, una volta che si siano compresi i fattori dai quali dipende la domanda effettiva». L’intervento pubblico che Keynes ha in mente deve essere mirato a disincentivare l’istinto alla tesaurizzazione e alla speculazione che caratterizza i rentier. Non credo che la segretaria della Cgil dia all’espressione «più stato nell’economia» il significato che Keynes dà all’espressione «azione dello Stato come fattore equilibratore».
Il responsabile economico Pd, Fassina, si è detto critico sui tagli, dichiarando la necessità di un sostegno della domanda aggregata tramite spesa pubblica. Si tratta di una visione “keynesiana” del responsabile dell’economia?
Dichiarare la necessità di un sostegno alla domanda aggregata tramite la spesa pubblica è un principio che un politico deve tradurre in scelte trasparenti e coraggiose. Il Pd ha avuto la possibilità di esprimere in Parlamento l’opportunità di organizzare la così detta spending review secondo una prospettiva – diciamo così – keynesiana, facendone un piano economico volto a riorganizzare il bilancio dello Stato per spostare risorse da certi settori ad altri, in grado così di sostenere la domanda effettiva. La spending review invece si è tradotta in tagli privi di una logica. La posizione del Pd è stata quanto meno ambigua. Stefano Fassina è un politico che ha una formazione seria da economista. Le sue posizioni e le sue dichiarazioni più recenti non mi paiono in linea con le posizioni e le dichiarazioni del segretario del Pd.
Su Linkiesta si è acceso un dibattito che ha avuto la sua scintilla nell’intervento di Guido Roberto Vitale, socio de Linkiesta, seguito dal professor Bisin. Il professor Bisin, in particolare, taccia la discussione tra neo-liberisti e keynesiani come «provinciale» ed emargina «i neo-marxisti, i keynesiani e gli sraffiani» nelle riserve indiane di alcuni atenei universitari. Insomma, dice che è una discussione inutile. È d’accordo?
A differenza del professor Bisin credo che nella teoria economica la dimensione ideologica conti moltissimo. Questo è un tema fondamentale su cui molti economisti si sono cimentati da Schumpeter a Dobb, da Joan Robinson a Milton Friedman. Un’ideologia costituisce o implica un punto di vista filosofico-sociale nell’ambito della teoria economica. Dobb sottolinea che la distinzione tra l’analisi pura del processo economico e la sua visione, inevitabilmente condizionata dall’ideologia, non possa essere sostenuta a meno di non circoscrivere la prima a un complesso formale di enunciati; tuttavia la “teoria economica” è un complesso di enunciati sostanziali sulle relazioni reali della società economica, un ambito più filosofico-sociale che logico-analitico. L’ideologia va qui intesa come qualcosa che costituisce o implica un punto di vista filosofico-sociale, nell’ambito della teoria economica.
E sulla dicotomia keynesiani-neoliberisti?
Sono d’accordo con il professor Bisin sull’inutilità di focalizzarsi su questa dicotomia. Sono molti gli ambiti di ricerca nell’economia mainstream, talmente vari da rendere complessa l’individuazione di un nucleo analitico comune e di una riduzione del mainstream al neoliberismo. Qualcosa all’interno della scienza economica dominante sembra comunque muoversi, e porta gli studiosi, per lo più inconsapevolmente, a recuperare alcuni aspetti delle teorie alternative e a non credere più che il laissez faire possa essere sempre la soluzione ottimale.
Ciò non significa tuttavia che la teoria economica dominante, anche nelle nuove vesti che dimostrano il suo stato di crisi, non sia da sottoporre a critica. E ciò non significa che le critiche di Marx, Keynes e Sraffa perdano d’incisività, anche se oggi «i più giovani e meglio attrezzati» non possono limitarsi a queste. Non lo possono fare soprattutto perché le linee di ricerca marxiane, postkeynesiane e sraffiane sono minoritarie, e di questo probabilmente sono responsabili anche i maestri delle scuole eterodosse che, come ha riconosciuto il professor Luigi Pasinetti nel suo ultimo libro Keynes e i keynesiani di Cambridge, sono stati poco saggi. Consiglio al professor Bisin, e a tutti coloro che desiderano esprimersi circa lo stato di salute delle scuole economiche eterodosse, di leggere attentamente le ricerche del Levy Economics Institute of Bard College e di prestare attenzione alle ricerche dell’Institute for New Economic Thinking.
Chiunque volesse studiare seriamente la teoria economica focalizzandosi sugli strumenti più attuali impiegati dagli economisti critici più seri dovrebbe studiare il libro di Lavoie, An introduction to post-Keynesian Economics.