“Celiaci e alcolisti, non c’è differenza”: così la Chiesa rifiuta i preti intolleranti al glutine

"Celiaci e alcolisti, non c'è differenza": così la Chiesa rifiuta i preti intolleranti al glutine

Nel 2005, l’Italia riconobbe la celiachia come «malattia sociale», garantendo alle persone affette dal morbo celiaco il «diritto all’erogazione gratuita dei prodotti dietoterapeutici senza glutine», come scritto nel testo della legge 123/2005, “Norme per la protezione dei soggetti malati di celiachia”. Fu un grande passo in avanti, che poneva (e pone ancora oggi) l’Italia tra i Paesi all’avanguardia nella lotta alla celiachia, malattia che colpisce un italiano ogni cento. Un enorme progresso dal punto di vista dirittuale che semplificò la vita, di certo non facile, dei numerosissimi cittadini alle prese con diete stringenti, alimenti forzatamente “diversi” (con conseguenti imbarazzi al ristorante) e prezzi del cibo più che raddoppiati rispetto al normale.

Ma ancora oggi, a sette anni da quella legge, c’è una parte di celiaci italiani che non può, e non potrà mai, fare davvero ciò che vuole. Stiamo parlando degli aspiranti sacerdoti. Uomini desiderosi di trasformare la propria vocazione in una vita al servizio della Chiesa Cattolica, che devono però scontrarsi con un male sottile, ma più grande e temibile di Satana: la celiachia, appunto. Per i celiaci, infatti, le porte di seminari, chiese e cattedrali sono irrimediabilmente chiuse. Dal 1995 è in vigore un documento, approvato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, secondo cui, come è riportato al punto d) del terzo paragrafo, «…i candidati al sacerdozio che sono affetti da celiachia o soffrono di alcoolismo o malattie analoghe […] non possono essere ammessi agli Ordini Sacri».

La “curiosa” – per usare un eufemismo – associazione tra alcolismo e celiachia, deriva da un semplice assunto: essendo pane e vino gli elementi centrali dell’Eucaristia, la Chiesa impone che gli aspiranti preti possano condurre la Messa nella sua interezza, senza dover ricorrere ad espedienti per sostituire il corpo ed il sangue di Cristo nella celebrazione. Ecco che, quindi, l’intolleranza al glutine diventa un doppio problema per i seminaristi, che non solo devono vivere affrontando le difficoltà di una dieta celiaca, ma si trovano anche sbarrata la strada che conduce al compimento della loro vocazione. La “Lettera circolare ai Presidenti delle Conferenze Episcopali sulla materia dell’Eucaristia”, firmata dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger, è molto chiara in materia: nessuna concessione, nessun permesso speciale, e la richiesta esplicita di «evitare lo scandalo» (paragrafo III, punto c).

Una piccola modifica è stata introdotta nel 2003, con un nuovo documento, anch’esso firmato dall’attuale Pontefice, secondo cui «data la centralità della celebrazione eucaristica nella vita sacerdotale, si deve essere molto cauti prima di ammettere al presbiterato candidati che non possono assumere senza grave danno il glutine o l’alcool etilico». Risultano difficilmente comprensibili, però, i parametri che regolerebbero la “cautela” qui necessaria nell’applicazione della norma, fermo restando il fatto che, come messo in rilievo nella stessa circolare solo poche righe sopra, «il sacerdote impossibilitato a comunicarsi sotto la specie del pane, incluso il pane parzialmente privo di glutine, non può celebrare l’Eucaristia individualmente né presiedere la concelebrazione».

La situazione è diversa per i preti già in esercizio, quelli a cui la celiachia viene diagnosticata dopo aver ricevuto gli Ordini Sacri. In quel caso, la loro posizione è salva, e la celebrazione eucaristica avviene attraverso l’utilizzo di ostie speciali, a basso contenuto di glutine. Le ostie completamente prive di glutine (quibus glutinum ablatum es), infatti, non vengono riconosciute dalla Chiesa: «Le condizioni di validità della materia per l’Eucaristia sono le ostie nelle quali è presente la quantità di glutine sufficiente per ottenere la panificazione senza aggiunta di materie estranee e purché il procedimento usato per la loro confezione non sia tale da snaturare la sostanza del pane», si legge nella circolare del 1995. Secondo il sito dell’AIC, Associazione Italiana Celiachia, «sono considerate idonee al celiaco sia le ostie garantite “senza glutine”, (cioè con contenuto massimo di glutine di 20 mg/kg), sia le ostie “con contenuto di glutine molto basso” (al massimo 100 mg/kg)».

Come i sacerdoti, anche i fedeli devono fare affidamento su questi ultimi parametri. Chi soffre di celiachia deve portare al proprio parroco un documento che attesti la sua situazione medica e chiedere esplicitamente che vengano procurate le ostie speciali da una delle aziende specializzate riconosciute dall’AIC. Il prelato, a quel punto, dovrà conservare le ostie speciali in un contenitore a sé stante, «in modo da evitare ogni contatto con le ostie convenzionali». Non sempre però ciò avviene, e non sono rari i casi in cui sono gli stessi fedeli a doversi portare le ostie da casa per effettuare la Comunione. Per questo motivo, l’Associazione Italiana Celiachia ha lanciato un monito importante, in cui chiede ai parroci «un’attenzione particolare nel conoscere coloro che, nella propria parrocchia, sono celiaci: nella consapevolezza che essa comporta, oltre a disturbi fisici anche rilevanti, non poco disagio e difficoltà per l’alimentazione quotidiana».

«I nostri riti e i nostri abiti sono pomposi, l’apparato burocratico della Chiesa lievita e le nostre case religiose sono vuote», spiegava il compianto Carlo Maria Martini qualche mese fa, affidando il suo disappunto alle colonne del Corriere della Sera. L’ex arcivescovo di Milano puntava il dito su una Chiesa «che ha paura invece di coraggio», arroccata sulle sue posizioni, ancora involuta, e sulla sua struttura episcopale, così anacronistica e inadatta a sostenere il cammino del cambiamento. «La Chiesa è indietro di 200 anni», sentenziava Martini, e aveva ragione. E proprio tra le motivazioni che fanno restare vuote le “case religiose”, ci permettiamo di aggiungere, ci sono le normative in fatto di celiachia, ancora oggi non adeguate ai tempi di una malattia che si sta diffondendo sempre di più, in Italia e non solo. 

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