In quei giorni, solitamente, il cielo si scurisce. Le nuvole si addensano sopra il tetto del penitenziario di Walls Unit. E anche la vita ad Huntsville, cittadina di trentamila abitanti nel profondo Texas, sembra fermarsi per un istante. Dentro le mura in mattoni rossi della «prigione della morte», un dead man walking pronuncia le sue ultime parole all’incirca ogni 22 giorni. In nessun altro penitenziario americano si muore così spesso. A pochi metri dal lettino in cui l’iniezione letale gli toglierà il respiro, un microfono registra quell’ultimo sussulto di vita, consegnandolo agli archivi del carcere. Alla memoria storica.
Ben pochi sanno, però, che quelle parole – così significative ed intense, pronunciate davanti ad un pubblico ristrettissimo – sono consultabili pubblicamente da chiunque. Basta andare sul sito del Texas Department of Criminal Justice, cliccare su Public Resources, poi su Death Row, infine su Executed Offenders. L’elenco mostra tutte le informazioni a disposizione sui (finora) 486 condannati a morte nella struttura di Huntsville: nome, età, provenienza, razza, crimine commesso, foto segnaletica. Ed il loro last statement, registrato e trascritto dal personale del carcere. A partire dal 12 luglio 1982, giorno dell’esecuzione di Charlie Brooks, bracciante di colore condannato per aver ucciso l’impiegato di un concessionario. Fu lui il primo a morire a causa dell’iniezione letale.
Negli anni, in Texas, il procedimento dell’esecuzione è rimasto lo stesso. Nel giorno prescelto, alle 18 in punto, il detenuto viene condotto alla camera della morte da due guardie, che lo aiutano a sdraiarsi sulla lettiga, collocata al centro della stanza. Il condannato non può scegliere il suo ultimo pasto: la legge texana non lo permette più. A questo punto, nelle braccia dell’uomo vengono inserite due flebo, attraverso le quali comincia a scorrere una soluzione salina. Dopo qualche minuto, quando anche i testimoni (solitamente, i parenti di vittima e condannato) sono stati fatti entrare nelle due salette laterali, tutti – eccetto la guardia ed il cappellano – lasciano la stanza. É solo in questo momento che al detenuto viene concesso di pronunciare le sue ultime parole, che vengono registrate da un microfono posizionato sopra la sua testa.
Si tratta di un documento eccezionale, proprio per l’unicità del momento in cui viene raccolto. «Sono restato seduto nella mia cella per molti giorni, pensando a quali sarebbero state le mie ultime parole…»: sintetizza perfettamente la sensazione Cleve Foster, ultimo a morire, lo scorso 25 settembre, tra le pareti turchesi della Texas Death Chamber. Foster, 48 anni, bianco, è stato condannato per aver violentato ed ucciso una donna, nel 2002. La sua riflessione, commovente, è quella di un uomo che ha capito il suo errore. «A causa del mio gesto un’altra madre è stata ferita, e come genitore capisco il suo dolore», perché «con il passare degli anni, ho imparato ad amare». Per lui, però, non ci sarà nessuna seconda opportunità: «La cosa più difficile da dire è “ti perdono”, ma spero che un giorno ci rincontreremo tutti in paradiso».
Quello del perdono è un tema che rientra molto spesso nelle ultime parole dei detenuti. «Melanie, non volevo farti del male. Ti sei soltanto trovata al posto sbagliato, nel momento sbagliato. Non chiedo il tuo perdono. Mi preoccupo solo che sia Dio a perdonarmi», diceva Milton Mathis, nel luglio del 2011. «Mi dispiace per i familiari della vittima, spero mi perdonino. La vita va avanti», erano le ultime parole di Humberto Leal, pronunciate il 7 luglio 2011. E anche chi non chiede perdono, spesso si rivolge ai familiari delle vittime. Come Beunka Adams, condannato il 26 aprile 2012, a soli 29 anni. «Ero un ragazzino in un mondo di adulti. Ma ho sbagliato e non posso tornare indietro. Per favore, non portate quella sofferenza nel vostro cuore. Non lasciate che l’odio vi divori, trovate un modo per lasciarvelo alle spalle».
Ma non è «perdono» la parola più utilizzata dai condannati a morte. A rivelarlo è uno studio realizzato da Jon Millward, scrittore e blogger americano con la passione per il linguaggio e le sue sfumature più estreme. «Love», «Family», «Thank», «Sorry» e «God» sono, nell’ordine, i termini più utilizzati dai detenuti a pochi istanti dall’iniezione letale. Per quanto riguarda le frasi composte da tre parole, invece, la più gettonata è «I love you» (“ti amo”, “ti voglio bene”), mentre seguono «i would like», (“vorrei”), «I am sorry» (“mi dispiace”) e «Thank you for» (“grazie per”). Secondo i dati rilevati da Millward, il 9,5% dei prigionieri condannati in Texas tra il 1982 ed il 2005 si sono dichiarati innocenti. Il primo fu Richard Wilkerson, incarcerato per aver ucciso un uomo con una pugnalata durante un furto, nel 1983: «Questa esecuzione non è giustizia. É solo una vendetta. Un occhio per occhio, dente per dente», urlò nel microfono.
C’è poi chi ha scelto di non dire nulla. Come David Lee Powell, ucciso nel 2010 dopo aver trascorso gli ultimi 31 anni di vita nel braccio della morte. O Ponchai Wilkerson, condannato nel 2000. O ancora Lawrence Russell Brewer, il cui final statement è stato, semplicemente: «No, I have no final statement». C’è anche chi è riuscito a tenere le ultime parole per sé: dal 1973 ad oggi sono stati 140 gli uomini risparmiati a poche ore dall’esecuzione. In alcuni casi la loro pena è stata riconvertita, in altri il governatore ha concesso loro la grazia. E c’è, infine, chi ha trovato anche il modo di scherzarci su. Come Jeffrey Matthews, condannato in Oklahoma: «Credo che il telefono del governatore sia rotto. Per questo non ha ancora chiamato». O James Jackson, che pochi istanti prima di morire, guardò in faccia il suo boia dicendo queste parole (trascritte solo in parte): «Uccidimi pure, guardia. É ora che la festa abbia inizio».